La riproposta televisiva del film di Luigi Comencini La donna della domenica è lo spunto per libere riflessioni sul rapporto fra Torino e il cinema. Il romanzo dallo stesso titolo da cui è tratto il film è opera della coppia di autori che si firmava Fruttero&Lucentini e ha un memorabile incipit: «Il martedì di giugno in cui fu assassinato, l’architetto Garrone guardò l’ora molte volte». È quasi identico all’incipit del romanzo di Gabriel Garcia Màrquez «Cronaca di una morte annunciata». «La mattina del giorno in cui fu ucciso, Santiago Nasar si alzò alle cinque e mezzo». Chi ha copiato? Chiaro: il romanzo di F&L è del 1972, quello di Gabo del 1981.
Il romanzo di F&L è incentrato su un dato di fatto: se gli italiani (più uomini che donne) sono pressoché tutti commissari della Nazionale di calcio e si considerano tutti più bravi di quello in carica, i torinesi (uomini e donne a pari merito) sono tutti commissari di polizia e in quanto accaniti lettori della cronaca nera, hanno le idee chiare sui colpevoli e sarebbero in grado di risolvere i casi molto meglio di quelli pagati per farlo. Pressoché tutti i personaggi del romanzo si danno da fare per risolvere il mistero al punto che uno di loro ci rimette le penne per essersi avvicinato troppo alla verità. L’unico titolato per farlo, il commissario Santamaria, ha pochissima voglia di mettersi all’opera, preferisce sfruttare l’occasione per penetrare negli ambienti esclusivi della Torino bene. Non per niente è romano e risponde agli stereotipi che connotano gli abitanti della Città Eterna.
Il regista Luigi Comencini ha fatto un ottimo lavoro ma era impossibile cogliere tutti i segni della «torinesità» disseminati nel romanzo. A cominciare dal cognome della prima vittima, l’architetto Garrone, che ricorda uno scolaro del Cuore di De Amicis: «Il ragazzo che mandò il francobollo al calabrese è quello che mi piace più di tutti, si chiama Garrone, è il più grande della classe, ha quasi quattordici anni, la testa grossa, le spalle larghe; è buono, si vede quando sorride; ma pare che pensi sempre, come un uomo». Per una curiosa coincidenza Luigi Comencini aveva realizzato nel 1984 la versione televisiva in sei puntate di Cuore affidando il ruolo del protagonista Enrico Bottini, colui che redige il diario, al nipote, figlio di Cristina e futuro ministro Carlo Calenda. Altra chiave della torinesità è il retaggio del dialetto, utilizzato anche dalle classi alte, abilitate in ciò dai Savoia (Vittorio Emanuele II, il Padre della Patria lo parlava abitualmente). Lo usava anche l’avvocato Gianni Agnelli e, per imitazione, tutta la catena dei sottoposti. Far cadere qua e là nel discorso un modo di dire, un proverbio, un termine colorito manda un segnale preciso: facciamo tutti parte della medesima koinè. Quando, dopo la metà degli anni ’50 ho iniziato a lavorare come operaio in uno stabilimento tipografico, ricordo che l’uso ostentato del dialetto da parte nostra aveva la funzione di marcare il territorio rispetto ai colleghi meridionali che facevano sforzi disperati per apprenderlo.
La vicenda gialla che si dipana nelle 538 pagine del romanzo ruota tutta attorno a un proverbio in dialetto che un impiegato del catasto (guarda caso un meridionale) sbaglia a tradurre in italiano.»La cativa lavandera a treuva mai la buna pera». In italiano è «La cattiva lavandaia non trova mai la buona pietra». In altre parole chi non ha voglia di lavorare trova sempre una scusa per sottrarsi al suo dovere. «Pietra» in piemontese è «Pera» che il nostro impiegato, sbagliando, pensa che il termine indichi un albero di pere, generando una catena di tragici equivoci. Il romanzo termina quando si è appena consumato il primo «congresso carnale» (per usare un termine da verbale di polizia) fra Anna Carla e il commissario Santamaria. «Il commissario accese la luce, guardò l’orologio. “Sono le sette e venti” “Oh, mipovradona!” disse ridendo Anna Carla. “Ma è tardissimo!” Scese dal letto leggera, e cominciò in fretta a rivestirsi». Carlo Fruttero mi confidò durante un’intervista che il titolo che loro avevano dato al romanzo era per l’appunto in piemontese. Avrebbe dovuto essere «Oh, mipovradona» (Oh,mia povera donna!). Alla Mondadori che avrebbe pubblicato il libro destinato a scalare tutte le classifiche di vendita naturalmente si opposero.
Quanto al rapporto fra il cinema e Torino è in questa città che nasce e si sviluppa. Nel 1904 Arturo Ambrosio torna da Parigi con un nuovo modello di macchina da presa e fonda il primo stabilimento. Nel 1914 sono attive 12 case che producono 250 pellicole all’anno proiettate in 73 sale. Concludo citando Carlo Fruttero, un amico che mi manca e che vorrei qui a parlare degli effetti del lockdown: «Io mi spiego e non mi spiego come i torinesi, proprio i torinesi, abbiano potuto investire, all’inizio del ’900 e quando la cosa costituiva una scommessa, nel cinema. Torino è, come si sa, una città regolare, ordinata, sobria, ma ha sempre avuto un suo ramo bizzarro».