Nel saggio Avere o essere, pubblicato nel 1976, il filosofo Erich Fromm apriva il suo sguardo critico su un presente che appariva sempre più segnato dall’esperienza dell’avere; un presente in cui l’avere stava diventando l’espressione dominante del nostro modo di abitare il mondo, capace di dar senso e valore alla vita. Con grande lungimiranza parlò di un’umanità che stava rischiando la catastrofe.
Per comprendere la differenza tra avere ed essere, Fromm propose un confronto tra due poesie che esprimono, in modo diverso, l’intensa emozione vissuta alla vista di un fiore: una composizione di un poeta inglese del XIX secolo, Tennyson, e quella di un poeta giapponese del XVII secolo, Basho. Scrive Tennyson: «Fiore in un muro screpolato / Ti strappo dalle fessure / Ti tengo qui, radici e tutto, nella mano / Piccolo fiore ma se potessi capire / Che cosa sei, radici e tutto, e tutto in tutto / saprei che cosa è Dio e cosa è l’uomo».
Ecco come si esprime invece la stessa emozione nelle parole di Basho: «Se guardo attentamente / Vedo il nazuna che fiorisce / Accanto alla siepe!».
Per vivere l’emozione, e per comprenderne il senso e il valore, si può scegliere di toccare il fiore, di stapparlo dalle sue radici, oppure si può solo guardarlo, osservarlo attentamente mentre fiorisce, entrando in contatto con lui e lasciandolo vivere. Con queste due immagini poetiche Fromm ha voluto indicare che esistono modi diversi di entrare in relazione con la natura: l’incontro con la bellezza della natura si può esprimere nel desiderio di «toccarla» oppure può essere nutrito soltanto dal desiderio di contemplarla nella sua bellezza. Guardare, come suggerisce la seconda poesia, è infatti un atto di contemplazione, una forma di conoscenza che richiede accoglienza e condivisione, un sapere in cui risuona la comune appartenenza alla natura. Il gesto di «toccare» il fiore, di strapparlo e prenderlo tra le mani per comprenderlo, potrebbe invece alludere anche ad un desiderio di appropriazione, reso possibile da quel sapere pratico, trasformativo, che ha segnato il progresso scientifico. Fromm intravede qui le possibili derive legate a questo gesto quando sia dominato dalla logica dell’avere. Non a caso, nella storia del progresso scientifico, questo significato del «toccare» come appropriazione della natura continua a sollevare delicate questioni etiche: quale il limite del potere dell’uomo? Quale la misura dell’agire bene?
Forse proprio per queste ombre etiche che si allungano sul «toccare», la saggezza delle nonne recitava: «guardare e non toccare è una cosa da imparare».
Poi arriva Papa Francesco a ricordarci che il «toccare» può avere anche un’altra valenza, un altro significato, profondamente umano. Anche il gesto di «toccare» può guidarci su una via diversa da quella del potere e del possesso; anche il «toccare», come l’atteggiamento contemplativo, può essere nutrito da sentimenti di accoglienza e di condivisione. Nella semplicità di quelle parole pronunciate durante una recente intervista alla televisione italiana, Papa Francesco ricorda, con intensa commozione, che solo il «toccare» la sofferenza permette alla realtà di arrivare direttamente al cuore. Solo nella fisicità di questo gesto è possibile contrastare l’indifferenza, spesso compagna del nostro sguardo. Di fronte alle grandi sofferenze del mondo suggerisce che il nostro modo di abitare la vita è solo una questione di scelte, di cui portiamo tutti, in prima persona, la responsabilità. Una gran bella testimonianza di filosofia pratica che ci invita a riflettere. Al tema del «toccare», e più in generale al valore del tatto, spesso trascurato rispetto a quello della vista e dell’udito, ha dedicato un bel saggio lo scrittore, drammaturgo e scultore Federico Capitoni. Il legame dominante tra la conoscenza e la vista ha radici etiche, sovente il tatto, insieme al gusto e all’olfatto, è stato infatti considerato inferiore perché troppo legato al corpo. Eppure, scrive Capitoni, il corpo riflette. Prima di percepire il mondo esterno, percepisce sé stesso: è toccato dal mondo.
Se la comprensione è la radice dell’etica, questa comprensione appartiene in primis al tatto. «Finché la persona in difficoltà è confinata nella cornice di una fotografia, (…) o nello schermo di un televisore, noi la vedremo soltanto, la toccheremo mai (…) Condividere significa avvicinare corpi, è nell’abbraccio che sta il simbolo etico della comprensione».
È proprio così, in questa bella immagine dell’abbraccio, la fisicità del gesto, del sentire del corpo, si riappropria del suo valore, troppo spesso negletto dalla purezza della ragione.