Tirchio o saggio: fa discutere Mr. Ikea

/ 05.02.2018
di Luciana Caglio

Quando si dice lasciare il segno: Ingvar Kamprad ci è riuscito, nel modo più incisivo e visibile del termine. Un po’ di Ikea l’abbiamo tutti quanti sotto gli occhi: una scrivania, una lampada, una tovaglia. Sono quegli oggetti, piccoli e grandi, ispirati al design scandinavo che fece tendenza, a partire dal dopoguerra, e di cui l’imprenditore svedese doveva offrire un’interpretazione popolare. Erano l’alternativa accessibile rispetto ai pezzi, firmati da architetti famosi, esposti nelle boutiques. Sin qui, si sta parlando degli aspetti risaputi di un successo industriale e commerciale, dovuto a un’intuizione vincente: come avviene quando i prodotti coincidono con le necessità e i desideri del grande pubblico. Questa volta, però, è un caso a parte, che supera le dimensioni e gli effetti di un normale successo aziendale. Ideando e producendo mobili scomponibili e suppellettili funzionali, Kamprad è diventato non soltanto milionario ma, addirittura, multimiliardario, tanto da figurare in testa alla classifica mondiale dei superricchi. In Svizzera, dove si trasferì nel 1976, per motivi fiscali, ha detenuto, per decenni, il primato: una fortuna che, secondo le più recenti valutazioni, si aggira sui 40 miliardi di franchi.

Ora, è proprio l’enormità di questa ricchezza ad attribuire a Mr. Ikea una fisionomia dai tratti contrastanti, per non dire ambigui, che l’ha reso leggendario in vita, e continua a far discutere, dopo la scomparsa. Certo, il personaggio si prestava alle ironie dei cronisti, che raccontavano le abitudini spartane di un anziano dimesso che comprava il pane, alla sera, a prezzo scontato, guidava un’utilitaria scassata, volava low cost. Potevano sembrare banali pettegolezzi, sfruttati dai media. Le biografie confermano che si trattava di una scelta di vita, agli inizi spontanea, poi cresciuta a lezione morale. Far soldi, ce l’aveva nel sangue: a 5 anni, vendeva, uno alla volta, i fiammiferi, comprati nelle scatolette. Adolescente, investì una piccola somma, regalo del padre, in un commercio postale. Da industriale, adottò il risparmio come principio guida, cominciando dalle piccole cose: usare le due facciate di ogni foglio e girare gli interruttori della luce, solo quand’è indispensabile. Non era da meno, nel privato. Indossava abiti di seconda mano, e, in albergo, metteva nel minibar bibite comprate al supermercato. Tutto ciò, in nome della coerenza, fra il dire e il fare. Dichiarava: «Se pratico il lusso, non posso predicare il risparmio». Un risparmio elevato a virtù, sinonimo di modestia, avvedutezza, misura, da proporre come modello di correttezza etica.

Nei confronti di questo, e di tanti altri paperoni, si giustifica però il sospetto che dietro la parsimonia non ci sia un ripensamento di tipo morale o ideologico, ma, semplicemente, l’avarizia. Cioè, una questione di dna, impronta che caratterizza modi di vita e mentalità ampiamente diffusi. E sembra, persino, che questo codice genetico prediliga proprio i ricchi.

Gli esempi di facoltosi taccagni si sprecano, tanto da confermare una stretta coincidenza. L’avarizia, insomma, è collegata a una forma di talento. Per trasformare l’acquisto in affare, per approfittare del momento giusto in borsa, per captare segnali che sono nell’aria serve quel sesto senso, non virtuoso ma, a suo modo, creativo.

Non per niente ha dato vita, nella letteratura, nel teatro, nel cinema a personaggi emblematici immortali. Dall’Arpagone di Molière allo Shylock di Shakespeare, allo Scrooge di Dickens e, non da ultimo, allo zio Paperone di Disney, la finzione ricrea comportamenti e sentimenti di cui siamo sempre testimoni nella realtà vissuta. Capita, ogni giorno, d’imbattersi nel tirchio di turno che, oggi, cerca di farsi passare per ambientalista, confondendo le carte in tavola. Non si difende la natura, ricorrendo a trucchetti meschini e persino assurdi. E qui l’elenco sarebbe lungo: entrare nella sala da concerto, senza pagare, durante la pausa, leggere il quotidiano, tolto dalla cassetta del vicino, e poi rimetterlo. E, riciclare le agende dell’anno prima: «Tanto Natale è sempre il 25 dicembre», dichiarava, l’autore di un risparmio in fondo misterioso.