Ti vesti come vuoi o come devi?

/ 24.09.2018
di Luciana Caglio

Il responso l’ha dato, inequivocabilmente, e proprio, con particolare evidenza, questa lunga estate confermando una tendenza in atto. Fra maggio e settembre, si assiste, ormai da anni, al fenomeno dell’omologazione vestimentaria. In altre parole, città e luoghi pubblici, vicini e lontani, appaiono popolati da persone tutte, più o meno, vestite allo stesso modo. E un modo di cui si conoscono bene i connotati, per così dire classici: canottiere variamente scollate, pantaloni multitasche e di lunghezze differenziate, a mezza coscia, al ginocchio, o nella versione minimalista all’inguine, prediletta dalle ragazzine, e poi ciabatte infradito, vero «must», o il sandalo, magari abbinato al calzino. Ma è troppo facile ironizzare. Bisogna piuttosto arrendersi all’evidenza di fronte a una tenuta, promossa a standard mondiale. Ora, se è adottata da turisti e residenti e non conosce limiti né di età né di stazza né di ceto sociale, ci sarà pure una ragione. Senza dubbio, risponde a un bisogno di comodità e semplicità che facilita la nostra vita di nomadi e sportivi, agevola gli spostamenti, permette di sistemarsi dove capita, su una panchina, un prato, una spiaggia, sviluppa l’arte di arrangiarsi. Ma c’è dell’altro. Si tratta di una scelta che esprime una sfida liberatoria nei confronti delle imposizioni e reca l’impronta, sia pur affievolita, del 68: quando si voltarono le spalle alla moda ufficiale conquistando il diritto al «do it yourself» anche nell’abbigliamento.

Strada facendo, però, questa libertà vestimentaria che, al primo momento, aveva dato adito ad alternative divertenti, tipo hippy, finì, invece, per scadere in forme di sciatteria e di chiara maleducazione. Il piacere del mi vesto come voglio, nuovo diritto, produsse e continua a produrre effetti sgradevoli, nella convivenza sociale. Il commensale a torso nudo, seduto al tavolo, vicino al mio, infastidisce, per forza di cose, d’ordine innanzitutto igienico, con il sudore che sgocciola sulla tovaglia. La licenza, che concerne l’abito, si estende, quasi automaticamente, ai comportamenti.

Per non parlare, poi, delle conseguenze che l’allentamento delle norme che, un tempo, regolavano il buon gusto corrente, sta avendo sul piano dell’immagine stessa delle città, persino quelle con una lunga tradizione di eleganza collettiva. Persino Milano, da questo punto di vista, ha cambiato faccia. La moda non vive più attraverso le interpretazioni della gente comune, ma sopravvive nel «quadrilatero», fra Montenapoleone e Corso Venezia, destinata a un’esigua minoranza. Mentre la maggioranza la ignora. Lo stesso avviene a Parigi e a Londra, dove, tuttavia, resiste, per lo meno, la tradizione del dress code scolastico. Quando diventano allievi, ragazze e ragazzi, magari a malincuore, si tolgono jeans sfilacciati e felpe con scritte irriverenti, per indossare pantaloni scuri, o gonne scozzesi, e blazer con lo stemma sul taschino.

Proprio qui, parlando di scuola e di vestiario per la scuola, si tocca un tema che ci concerne da vicino. Infatti, complice l’autunno, in molte scuole oltre Gottardo, si è riaperto il dibattito sull’opportunità, o meno, di ricorrere all’uniforme, uguale per tutti e tutte, per risolvere il controverso problema del look trasandato di troppi allievi. Ma, in proposito, il cattivo esempio viene proprio dall’alto. Secondo una ricerca dell’Istituto di pedagogia e didattica di Zurigo, la maggioranza dei docenti si trascura. E al vecchio proverbio, «l’abito non fa il monaco», va aggiunto: «lo fa però il maestro». Tanto più che, come si rileva, chi sale in cattedra, mal vestito e spettinato, dimostra «scarsa considerazione per il suo pubblico, gli allievi» facendo valere una superiorità intellettuale.

Il discorso si sta allargando ad altri settori della vita pubblica e professionale, la finanza e la comunicazione, in particolare. Scorrendo le pagine dei quotidiani zurighesi mi sono imbattuta in titoli inattesi: «L’aspetto come fattore di carriera», «Oggi si deve riflettere di più su ciò che indossi», o ancora «L’arte di vivere comincia dallo stile». Cosa dedurne? Sta di fatto che questa riabilitazione del fattore estetico non rappresenta più una futilità femminile. I maschi ne sono coinvolti, e come. Si pensi al calcio. Da lì arrivano gli esempi più seguiti: creste colorate, mèches e tatuaggi a iosa. Tanto per concludere che, ieri come oggi, non tutte le raccomandazioni del dress code sono buone.