Théâtre de Vidy a Losanna

/ 15.10.2018
di Oliver Scharpf

Una quindicina di ragazzi, nel cuore della notte, si ritrova su un terrain va-gue, per un rave. Questa la sinossi dello spettacolo di danza in scena stasera al Théâtre de Vidy. Rinomato oggi a livello europeo, nasce per la durata di sette mesi soltanto, il tempo dell’Expo 64. Ideato da Max Bill (1908-1994) come struttura modulare metallica rapida da montare e smontare, viene poi salvato da Charles Apothéloz (1922-1982). Sorto su una lingua di terra un tempo palude – bonificata proprio in vista della quinta esposizione nazionale svoltasi da quelle parti tra aprile e ottobre 1964 – prende il nome dal breve toponimo che comprende diversi chilometri lungo le rive del Lemano. Dove cammino, con calma, una sera d’autunno. Ma se siete un po’ in ritardo prendete il bus numero due, da Ouchy sono un paio di fermate. Non potete sbagliare, la fermata si chiama Théâtre de Vidy.

A prima vista, da fuori, il teatro è un’opera modesta. Provvisorietà prevista a parte, è un po’ lo stile ostile allo spettacolare di Max Bill: designer, grafico, pittore, scultore, e architetto nato a Winterthur. A Dessau a fine anni venti, per un anno, frequenta la Bauhaus, fonda e dirige negli anni cinquanta la Scuola di Ulm, entra in molte cucine tedesche attraverso un orologio da parete con cronometro per le uova alla coque. Ma il suo pezzo forse più famoso rimane uno sgabello oltremodo spartano – originariamente in legno di peccio con un innesto di faggio – utilizzato però pressoché solo come tavolino. Assaporo ancora per un attimo i riflessi delle linee verticali in acciaio inox e poi entro, dalla porta a vetri aperta, nel Théâtre de Vidy (377 m) a Losanna. Sulla sinistra, la libreria; dietro l’angolo c’è il bar-ristorante chiamato La Kantina. Vasto spazio aperto anche nei giorni senza rappresentazioni, dalle nove di mattina alle quattro di pomeriggio. Non mancano gli sgabelli di Bill – noti anche come sgabelli di Ulm perché disegnati per la scuola nel 1954 – posti appunto non come sedie ma come appoggiaoggetti. Peccato non sia rimasto l’arioso bar di Max Bill concepito per l’Expo 64 e per il quale aveva disegnato i leggiadri sgabelli da bar ancora in produzione che male, al bancone, non starebbero. Eppure se è svanito il mesoscafo di Jacques Piccard, già bello che è restato in piedi questo «blocco austero». Così l’ha definito su «Le Temps» il critico teatrale Alexandre Demidoff qualche anno fa, nella recensione del libro uscito per festeggiare un glorioso e inatteso mezzo secolo.

Fuori in terrazza, lo sguardo si perde verso il lago. Posizione unica, per un teatro. «Un teatro in riva al lago» lo slogan di Matthias Langhoff: noto regista tedesco figlio d’arte nato a Zurigo e approdato qui come direttore nel 1989. In due anni, prima di ripartire per dirigere il Berliner Ensemble, porta una ventata d’aria internazionale. Debutta con Au perroquet vert di Schnitzler, atto unico andato poi in scena quell’estate, nel Chiostro dei Carmi, al festival di Avignon. Mi siedo con il mio tè freddo a un tavolino e in cima ai pilastri galvanizzati, noto i bulloni a vista. Architettura-meccano, fugace, funzionale al massimo. Mancano dieci minuti alle otto, c’è parecchia gente, entro nella sala Charles Apothéloz. La più grande delle quattro, trecentottantasei posti, è dedicata al salvatore e primo direttore del teatro. Nato qui a Losanna, grande promessa dell’atletica leggera nei duecento metri, obiettore di coscienza, mette in scena nel 1948 al Théâtre Municipal una sceneggiatura di Sartre mai realizzata: Faux-nez. Faux-nez sarà anche il nome della compagnia che crea e del piccolo cabaret-teatro in rue de Bourg. Viene spesso ricordato per l’epocale regia di La Muraille de Chine di Frisch, ma il suo nome è anche molto legato all’affaire Gulliver. Proprio in occasione dell’Expo 64 allestisce un Gulliver gigante che interroga i visitatori sull’identità svizzera creando un polverone perché i risultati dell’inchiesta, pare, verranno censurati dalle autorità.

Fila elle, posto ventidue, la sala è piena. Entra in scena, al ralenti, su ipnotiche note techno, la prima ballerina di Crowd. La coreografia è di Gisèle Vienne, il palcoscenico è pieno di terra, la musica è Illuminator (1995) di Mike Banks meglio noto come Mad Mike. Un ragazzo ora passa la lattina di birra da mezzo alla ragazza, i movimenti al rallentatore sono di una precisione virtuosa che commuove. È il rallentatore il segno antitetico che sposta estaticamente il caos di quelle turbolenti notti anni novanta in qualcosa di più etereo e rigoroso. Senza perderne il carattere selvaggio, disperato, ilare; anzi. La danza, in un crescendo drammaturgico, diventa rito collettivo dove erotismo, violenza, e tenerezza si riuniscono in esplorazione perenne del terreno vago della giovinezza. Ricordo, senza malinconia, sprazzi di certe nottate di quasi trent’anni fa. Poi di colpo, un tuffo in un passato ancestrale presente qui vicino, dall’altra parte di rue de Rhodanie, dove durante gli scavi per costruire una casa, sono stati rinvenuti i resti di un teatro gallo-romano.