The learning photographer

/ 19.07.2021
di Natascha Fioretti

L’altro giorno è stata la giornata dei musei. Di uno, della sua meravigliosa mostra, mi ha raccontato entusiasta un’amica di ritorno da Zurigo. L’esposizione personale al Kunsthaus dedicata a Gerhard Richter l’ha letteralmente folgorata, si è portata persino a casa il poster di Nuvole, il dipinto olio su tela e l’ha appeso sopra il letto. Io invece avevo appena finito di leggere le ultime notizie sulla variante Delta nei giorni degli affollatissimi europei di calcio. Pensiero abbandonato subito per concentrarmi sulla semplice magia di un caffè preso sulla piazza del LAC con vista lago a parlare di vapori sospesi, letteratura e cose belle da fare prossimamente.

Poco lontano e solo qualche ora dopo, ho avuto anch’io un folgorante incontro, questa volta con la fotografia di Hans Georg Berger a Villa Malpensata che ospita la retrospettiva a lui dedicata La disciplina dei sensi curata da Paolo Campione. L’occasione era data dalla presentazione del catalogo ma il piacere è stato poter incontrare e ascoltare l’artista dal vivo. Mi ha colpito sin da subito per la sua umiltà e una certa timidezza nel raccontarsi. Questo straordinario protagonista della fotografia contemporanea ha subito sottolineato la sua curiosità e la sua voglia di imparare così vive ancora all’alba dei settant’anni. «Sono una persona curiosa che vuole imparare. Imparare significa avere meno paura del mondo e delle cose strane. Nella fotografia ho scoperto il mezzo per accedere ad una cosa molto semplice: dimenticare tutto quello che c’è attorno e mi disturba per vedere il mondo più ordinato». Nel catalogo Campione ci dice che per Berger la fotografia è un rimedio esistenziale, uno strumento per esplorare il proprio universo sensoriale e dare corpo alla propria identità. La sua è una ricerca che lo ha portato a credere nella condivisione come strategia fondamentale, sia a livello personale, sia a livello socioculturale promuovendo un processo in cui l’altro diventa parte integrante e attore di un progetto condiviso. Berger mi stupisce ancora, quasi mi commuove, quando spiega la scelta della fotografia in bianco e nero dicendo che si tratta di una forma di astrazione che permette di concentrare maggiormente il nostro sguardo, di andare più in profondità. «Il colore può essere superficiale, bello ma raramente mi colpisce». Come si evince dalla mostra e dal racconto esistenziale, Berger è un profondo conoscitore dell’Asia dove ha vissuto per diverso tempo. Qui con la sua Hasselblad ha portato un nuovo modo di fotografare fatto di lentezza e attenzione per sviluppare un processo di apprendimento e un atto conoscitivo graduali, dilatati nello spazio temporale. «Cerco persone con le quali instaurare un rapporto di fiducia» racconta e un esempio è l’abate del monastero buddista theravāda in Luang Prapang. Qui nella capitale del Regno del Laos, the learning photographer, così è stato soprannominato, si è concentrato nel riprendere e ritrarre feste, riti, antichi culti ancestrali preservati nei secoli. Una volta stampate ha appeso le immagini per mostrarle e discuterne insieme agli altri. Ed è qui, in questo confronto tra culture, punti di vista, credi religiosi e visioni del mondo che si sviluppano il dialogo intimo e il confronto costruttivo cari all’arte di Berger che a partire dal 1944 nel corso di molti anni si è avvicinato agli oltre quaranta monasteri della città fotografando un universo fragile e antico, partecipando con la gente del luogo ogni scatto per renderlo memoria condivisa. Dai monasteri buddisiti alle Madrase femminili e maschili in Iran, l’arte di Berger traccia un percorso spirituale e intellettuale e trasmette a chi guarda il percorso che le persone ritratte hanno compiuto. «Non è una questione tecnica, ci sono forze misteriose che vanno al di là della nostra capacità».

Mentre sentivo the learning photographer raccontare le sue esperienze e mi interrogavo sulle forze misteriose, all’improvviso sono stata assalita da un senso di inquietudine. Ho messo a fuoco quanto l’approccio di Berger rappresenti un’eccezione non soltanto in campo artistico ma in campo umano. Pensate, facendo un confronto, di come siamo riusciti a svuotare di senso la parola condivisione, una tra le più abusate del nostro tempo. Oggi, senza condivisione, non si può stare sui social ma i presupposti, i tempi, la cura che mettiamo nella condivisione e nelle nostre relazioni, la sostanza del nostro interagire sono lontani anni luce dal lavoro di Berger. Cosa stiamo perdendo? Ecco, questo mi preoccupa.