Testate internazionali unite contro Pegasus

/ 30.08.2021
di Natascha Fioretti

«Caro lettore, oggi il “Washington Post” si unisce agli altri media di informazione di tutto il mondo per raccontarti una storia importante. La sorveglianza digitale pervade la nostra società e le nuove tecnologie offrono sempre più potere per tracciare ogni aspetto della nostra vita quotidiana. Il pericolo di abusi non è mai stato così grande. In molti paesi non ci sono regolamentazioni efficienti o standard che limitino le aziende private nella vendita di tecnologia di sorveglianza ai governi o ad altri. Questo è il motivo per cui abbiamo deciso di unirci al Progetto Pegaso».

La lettera firmata da Sally Suzbee nuova direttrice del «Washington Post» è stata pubblicata il 18 luglio scorso e racconta come la testata insieme ad altre come il «Guardian», la «Süddeutsche Zeitung», «Le Monde» e «Die Zeit» abbia preso parte a un’inchiesta giornalistica internazionale volta a svelare una grande operazione di cyber spionaggio globale attraverso un software militare venduto dalla società israeliana Nso. Il software Nso è in grado di sorvegliare ogni tipo di informazione contenuta in uno smartphone, dai messaggi alle fotografie alle email fino ai contenuti delle telefonate. Persino le app criptate sono un libro aperto per questo software di spionaggio che traccia la posizione del cellulare in tempo reale.

A dare il via all’inchiesta lanciata dal colletivo no profit francese Forbidden Stories in collaborazione con Amnesty International è stato un leak di 50mila numeri di telefono che sarebbero stati spiati attraverso il programma e distribuiti in 45 Paesi. Più di mille gli smartphone infettati e sorvegliati soltanto in Europa compreso quello della direttrice del «Financial Times» Roula Khalaf. Secondo un articolo uscito sul «Guardian» ad utilizzare il programma sarebbero stati l’Ungheria, l’Azerbaigian, il Bahrain, il Kazakistan, il Messico, il Marocco, il Ruanda, l’Arabia Saudita, l’India e gli Emirati arabi. Nel mirino dell’operazione centinaia tra uomini d’affari, autorità religiose, accademici, operatori di Organizzazioni non governative, sindacalisti, funzionari governativi, ministri, presidenti e primi ministri. Ma anche molti giornalisti, quasi duecento, di testate come «Financial Times», Cnn, «New York Times», «France 24», «The Economist», «Al Jazeera», «Mediapart», «El Pais», «Bloomberg», le agenzie di stampa Associated Press, Agence France-Presse e Reuters. In particolare sarebbero stati spiati il giornalista americano Bradley Hope che all’epoca della sorveglianza lavorava per il «Wall Street Journal», due reporter indiani che nel 2018 indagavano sull’utilizzo di Facebook, due giornalisti ungheresi del sito investigativo Direkt36, Ben Hubbard responsabile dell’ufficio del «New York Times» a Beirut e Cecilio Pineda Birto, ucciso in un autolavaggio. 

Come ha scritto Lukas Mäder sulla «Neue Zürcher Zeitung» qualche settimana fa, il fatto che stati autoritari utilizzino strumenti di spionaggio così potenti per spiare giornalisti e dissidenti è un problema e l’Occidente ha tutto l’interesse di fermare questa pratica. Il tempo per agire e prendere misure però stringe. Sempre la NZZ ha rivelato che il software di sorveglianza israeliano sarebbe in uso anche nel nostro paese. Dal 2017 ad oggi sarebbe infatti stato utilizzato più volte dalla Fedpol contro criminali e terroristi. 

Da parte sua la società israeliana Nso invece sostiene che una volta venduto il software a governi attentamente selezionati, non ne ha più il controllo operativo, né ha accesso ai dati delle persone spiate. Ai giornalisti del Pegasus Project – in tutto sono ottanta attivi in tutto il mondo - ha detto che i 50’000 numeri di telefono sarebbero un’esagerazione e che il fine non era quello della sorveglianza ma della raccolta dati per scopi commerciali.

Per tornare alla lettera di Sally Suzbee, la direttrice del «Washington Post» cita le parole di un esperto di cybersorveglianza coinvolto nel progetto del consorzio investigativo: «l’umanità non è un posto dove possiamo permetterci di avere così tanto potere accessibile a chiunque».  

E conclude «Il Post è orgoglioso di prendere parte ad un’investigazione che porta alla luce questo tipo di informazione».