Tempi di nostalgia anche in politica

/ 29.05.2017
di Luciana Caglio

«Ci vorrebbe un nuovo Churchill»: quante volte l’abbiamo letto e sentito, nei commenti di giornalisti, politologi, storici, impegnati a decifrare la situazione mondiale. Tanto ingarbugliata che, forse, soltanto il geniale intuito dello statista britannico sarebbe in grado di districare. Lui, infatti, c’era riuscito. Unico fra i governanti dell’epoca, gli anni 30, aveva presagito la minaccia hitleriana a cui si doveva reagire senza esitazioni. Scrivendo così una pagina di storia decisiva, che costituisce un’eredità morale e culturale sempre attuale, a cui attingere. È il privilegio raro che spetta a pochi, anche in politica, dove i grandi talenti non si sprecano: ieri come oggi.

E qui si tocca il fattore-epoca che, nella nostra quotidianità, ha conquistato rilievo e popolarità innescando continui paragoni, per non dire scontri, sul piano dei valori, in definitiva fra bene e male. Da cui, il passato esce sempre più vincente. Sia chiaro: il risultato si basa, non tanto su dati scientificamente accertati, quanto su umori che sono nell’aria, portati dal vento della nostalgia. Che spira soprattutto nei paesi più evoluti, più colti, e commercialmente più ricettivi, dove influisce su abitudini, consumi, opinioni, ideologie. Si assiste a un continuo rimpiangere: i cibi genuini della nonna, gli effetti curativi delle erbe, le stagioni che, una volta, erano quelle giuste, l’aria pulita, e via dicendo, fino a coinvolgere l’ambito politico. Proprio qui, la nostalgia la fa da padrone, favorita, del resto, dai governanti del momento. Fra Roosevelt e Trump, il confronto è persino improponibile. Per non parlare di Putin, Erdogan, Kim Jong Un: insomma, personaggi che giustificano la nostalgia e il pregiudizio che l’alimenta.

Al di là di questi casi estremi, è un fatto che la politica, come mestiere e carriera, in grado di assicurare prestigio, successo, persino ricchezza, sta perdendo potere d’attrazione. Il caso americano rimane simbolico: la prima potenza mondiale non riesce a produrre personalità all’altezza di compiti sempre più esigenti, e in un certo senso rischiosi. Come osserva il politologo tedesco, Stephan Bierling, sta avvenendo una selezione di tipo etico e ideologico: i più capaci, che aspirano a cambiare il mondo, scelgono la strada per la Silicon Valley, dov’è ancora possibile creare e sognare. Mentre la politica, vera e propria, non è più una professione che implica una vocazione (in tedesco, precisa, Bierling «Beruf» definisce le due cose). Il fenomeno, del resto, in forme diverse, si registra anche nel microcosmo ticinese, dove, anzi, le piccole dimensioni lo rendono, più evidente. È sotto gli occhi di tutti: i talentuosi, i coraggiosi, i curiosi trovano terreni più favorevoli nell’imprenditoria, nell’architettura, nella ricerca medico-scientifica, nell’informatica, nei media, ma, la precisazione è d’obbligo, dietro le telecamere. Mentre, i politici sono costretti a trovarsele davanti.

Ora, questo ruolo di protagonista, imposto dall’era dell’immagine, ha messo insidiosamente alla prova i nostri politici, magari non proprio favoriti dal vocabolario e dall’aspetto, fattori un tempo secondari, che adesso rivestono un’importanza spropositata. E sono queste comparsate televisive a incidere sulle sorti di candidati, magari competenti, ma privi della capacità di bucare lo schermo. Di cui fu, invece, un impareggiabile maestro Giuliano Bignasca, presentandosi vestito da postino e sfoggiando un linguaggio diretto, in stile popolare-populista.

In altre parole, il progresso tecnologico, che successivamente avrebbe comportato i social, ha inciso profondamente sulla figura del politico, in lizza o in carica, costringendolo ad affrontare una ribalta che i suoi predecessori non potevano neppure immaginare. Dei quali si sono, non di rado, sopravvalutate le capacità e lo spessore intellettuale. Alcuni meritano il rimpianto, ed è il caso di Claudio Generali, recentemente scomparso, che, del resto sul video se la cavava benissimo. Altri, invece, appartenenti a precedenti generazioni, continuano ad avere soltanto il merito di essere nati prima.