È giocoforza accettarli. I tatuaggi appartengono a una moda in ascesa, che proprio d’estate, conquista visibilità. In forme e dimensioni diverse compaiono, adesso, su braccia, spalle, collo, polpacci e caviglie di giovani, e meno giovani, in prevalenza maschi. Ma, anche le donne, sia pure con interventi più leggeri, tipo farfalline e cuoricini, si lasciano tentare. Responsabili di questo rilancio, i trendsetter per dirla in gergo, sono evidentemente i calciatori. Negli stadi di tutto il mondo, affidano la loro popolarità anche a pettinature elaborate e a ghirigori sulla pelle. Con successo, tanto da scalare il vertice della mondanità. Come nel caso di David Beckham, invitato alle nozze di Windsor, dove, per l’occasione i suoi famosi tattoo erano nascosti da un completo sartoriale di strepitosa eleganza. Del resto, un altro elegantone doc, Gianni Agnelli, portava un paio di incisioni decorative sulle braccia. Insomma, il tatuaggio è ormai sdoganato, sia dal profilo sociale che morale. Diventando una moda per tutti, si è banalizzato, non scandalizza più, sembra una scelta innocente. Semmai, è questione di gusti.
Le perplessità permangono proprio qui: sul piano estetico e igienico e, non da ultimo, su quello delle motivazioni. Perché ci si fa tatuare? È inevitabile chiederselo, di fronte a un fenomeno di contagio globale che, però, non è un’invenzione del nostro consumismo. I ragazzi che lo praticano compiono inconsapevolmente un gesto antico, oggetto, negli ultimi anni, di ricerche multidisciplinari, che portano lontano e sorprendono. È l’itinerario proposto recentemente in una mostra al Natural History Museum di Los Angeles, capitale del tattoo contemporaneo. Punto di partenza, nientemeno che Oetzi, l’uomo di Similaun, cioè 5000 anni fa: la sua pelle mostrava le tracce di intagli decorativi, ancora da decifrare. Proseguendo il cammino, dalla preistoria alle primordiali forme di vita comunitaria, il tatuaggio doveva assumere il significato di contrassegno: indicava l’appartenenza a una tribù, a un’etnia, a una fede spirituale. Successivamente, in società più evolute, fu un modo per identificarsi e differenziarsi, come gruppo e come persona. Un ruolo che, secondo Gillo Dorfles, anticipò quello dell’abito: «La pittura corporea, addirittura le mutilazioni e deformazioni, perforazioni delle guance (antesignane del piercing) dimostrano la necessità per l’uomo di aggiungere qualcosa al proprio corpo».
Lungo questo percorso, si precisa la funzione che è spettata al tatuaggio in situazioni particolari di isolamento o addirittura di reclusione. Succedeva durante le avventurose navigazioni, a bordo di imbarcazioni lente, dove nasceva uno spirito di gruppo, di cui il bicipite istoriato era il simbolo stesso del mestiere di marinaio. Anche, però, del pirata, figura che contribuì alla cattiva fama di una pratica, che si diffuse soprattutto nelle carceri. Quando la parola hobby neppure esisteva, per i detenuti tatuarsi rappresentava uno svago, addirittura un atto liberatorio, per dar sfogo alla fantasia. Ma, nell’immaginario collettivo, quel disegno sulla pelle venne associato alla delinquenza. Qualcosa che riaffiora nei gialli televisivi: agli occhi del poliziotto, è un indizio di colpevolezza.
C’è, infine, un’altra categoria di tatuati: gli involontari che l’hanno subito, come un marchio infamante e irrimediabile: un semplice segno geometrico, un nome, una data di nascita, una provenienza, incisi sul polso dei reclusi nei lager e nei gulag. Mi è capitato, anni fa, di scorgere uno di questi sulla mano di un’anziana signora, ospite di una casa di riposo luganese. Per pudore, o voglia di dimenticare, aveva preferito non parlarne.
Del resto, per nostra fortuna, dalle pagine della grande storia il tatuaggio è passato alle cronache quotidiane, animando tutt’al più l’ennesimo dibattito sulle predilezioni dei giovani, sollecitati dall’emulazione che, in ogni tipo di moda, sfugge alla ragionevolezza. Mostrandomi un braccio, sempre più coperto da disegni e iscrizioni, un giovane parrucchiere mi spiega: «Costano, fanno un po’ soffrire, ma se li fanno tutti, e perché io no?». Fine della discussione.