Tante diversità diverse

/ 18.08.2017
di Franco Zambelloni

Qualche tempo fa ho visitato una mostra allestita a Villa Saroli, a Lugano, dal titolo «TU! Un percorso sulla diversità». La diversità qui documentata è quella che un tempo si chiamava «invalidità» e che spesso costituiva un fattore di segregazione e di esclusione dalla vita sociale. «Diversi, eppure uguali» è la tesi che questa mostra sostiene e illustra con abbondanza d’esempi.

Ho apprezzato la mostra, e soprattutto la tesi che vuole affermare: riconoscere l’uguale dignità di chi si ritrova inferiore ai «normali» per varie forme di handicap è un progresso per certi versi persino incredibile della mentalità civile. Per secoli e secoli la malattia congenita, la deformità del corpo, l’invalidità fisica o mentale sono state stigmatizzate come una giusta punizione divina per qualche peccato commesso dai genitori o dal malato stesso. Per tutto il Medioevo i coniugi venivano esortati alla continenza e al rispetto delle regole – rigidissime – della pratica sessuale stabilite dalla Chiesa: la non osservanza di tali regole avrebbe comportato, per condanna divina, la generazione di mostri o, come minimo, di figli tarati.

Questa mentalità superstiziosa e ingiusta è andata annullandosi gradualmente nel corso del tempo; ma c’è voluto non poco per comprendere che il «diverso» – anche se uguale nei diritti e nella dignità – è pur sempre diverso per la limitatezza di certe sue capacità e per le difficoltà che si trova ad affrontare. Per limitarci ad un unico esempio: le «barriere architettoniche» – come oggi vengono definite – erano cosa alla quale in passato nessuno faceva caso e che finivano per escludere persone con difficoltà motoria dalla vita normale. Le scuole, i tribunali, le chiese, persino gli ospedali erano solitamente alloggiati in grandi edifici con imponenti scalinate: e lo studente con difficoltà motorie doveva comunque farsi alcuni piani di scale più volte al giorno. È pur vero che lo studio, un tempo, era considerato una doverosa fatica; ma, per il disabile, la fatica era doppia.

Oggi precise norme stabiliscono le condizioni di accessibilità che ogni edificio pubblico è tenuto a garantire. Anche i marciapiedi sono solitamente regolati in modo da facilitare la salita e la discesa di chi si sposta su una carrozzella; e gli ascensori e i mezzi di trasporto pubblici opportunamente attrezzati sono una manna dal cielo. Così la tecnologia appiana diversità che altrimenti si tradurrebbero in diseguaglianze.

Ma le tecnologie, da sole, non servirebbero gran che se, parallelamente, non si fosse sviluppata una sensibilità pubblica che prima non c’era. A questo sviluppo ha indubbiamente concorso la crescita progressiva delle forme di disabilità: infortuni occasionali, patologie congenite e, soprattutto, il prolungamento della vita (con gli acciacchi che la vecchiaia normalmente comporta), hanno aumentato il numero delle persone con difficoltà motorie che non intendono affatto rimanere segregate in casa. Dunque, l’ente pubblico provvede. Ma è ancora da rilevare che gli accorgimenti tecnici non bastano, se poi mancano quella sensibilità e quel rispetto che sarebbero dovuti a tutti. Ricordo di aver visto, a Roma, molti marciapiedi smussati ai punti di attraversamento, proprio per agevolare il passaggio di una carrozzella. La legge ci ha pensato, i cittadini, no. Se per molti è abitudine parcheggiare l’auto sul marciapiede, come ci passa una carrozzella?

È questo un aspetto del problema dell’integrazione che non può essere disciplinato da leggi e regolamenti. A che servono le buone decisioni amministrative se poi manca una cultura pubblica del rispetto dell’altro? E, sia chiaro, «l’altro» non dev’essere necessariamente un disabile: un tempo si cedeva il posto sul bus all’anziano; oggi, quanti sono i giovani che ancora lo fanno? Non sto dicendo che i giovani d’oggi sono egoisti: dico che non vedono. Perché spesso non gli si insegna a vedere, a uscire dal proprio esclusivo punto di vista e a mettersi nei panni dell’altro. Più volte mi capita di pensare che l’educazione dei giovani si va riducendo a grandi discorsi: una retorica della morale si sostituisce alla vera morale. Così non si sviluppa quella sensibilità che è doverosa non solo verso la disabilità, ma verso chiunque. Così accade che crescano persone che non hanno alcun riguardo per l’altro e fanno solo quel che gli garba. Anche loro sono «diversi»: potrebbero definirsi «moralmente disabili». Questa, però, è l’unica forma di diversità che non meriti alcun rispetto.