Svizzera: perfezionismo in crisi

/ 03.05.2021
di Luciana Caglio

Ai primati ci eravamo, ormai, abituati, come fosse un automatismo. Il nome della Svizzera, infatti, svetta da decenni in testa alle classifiche mondiali, negli ambiti più svariati. Persino quello, difficilmente quantificabile, della felicità, abbinata, nelle statistiche, alla cosiddetta qualità di vita che città come Ginevra, Zurigo, Basilea sono in grado di garantire. 

Ai primi posti, compaiono regolarmente, il Politecnico di Zurigo e l’Università di San Gallo e, più in generale, il nostro sistema educativo, con le scuole professionali, modello esportato persino negli USA. Non mancano, infine, nostri concittadini, insigniti del Nobel, per la scienza e la ricerca. Si giustifica, insomma, il diffuso orgoglio elvetico, da cui è derivato un senso di sicurezza, addirittura d’incolumità nei confronti dei guai che affliggono, invece, gran parte del mondo. Come dire, disordini politici, inadempienze organizzative e conflitti sociali non ci concernono, tutt’al più in forme blande. È, del resto, il motivo che induce privilegiati stranieri a trasferirsi nella Confederazione, dove le cose funzionano puntualmente.

Nomen omen, la Svizzera fedele alla sua fama: tutto ciò fino al febbraio 2020, quando un paese, dove ci si assicura anche contro il rischio pioggia-vacanze, ha dovuto arrendersi all’imponderabile: un virus che si affida soltanto alla fatalità. Alle prese con quest’evento astruso, una compagine nazionale, forse idealizzata, è andata in tilt, costretta a rivelare limiti e contraddizioni. Per i suoi cittadini, uno choc sconvolgente. Non tanto per gli effetti d’ordine materiale-disciplinare, bar chiusi, niente viaggi, mascherine, ecc., in fin dei conti accettabili, quanto per le conseguenze sul piano morale, culturale, sentimentale. All’improvviso, ci si deve ricredere: non siamo i più bravi. E, proprio nel momento in cui lo «swissmade» avrebbe potuto confermare la sua superiorità. Invece delude, istaurando un clima da caccia ai colpevoli, come avviene ovunque. Sotto processo, quindi le multinazionali della chimica, i burocrati di Bruxelles, i politici di Berna e Bellinzona, i virologi che si contraddicono, le autorità vallesane che, vietando l’assunzione di nuovi collaboratori, bloccano l’attività della Lonza, impegnata nella produzione di vaccini. Parlando di vaccini, si tocca il punto cruciale della questione. Proprio qui, la patria di famose imprese farmaceutiche avrebbe dovuto ottenere un primato, per così dire annunciato. E invece eccoci al cospetto di un’incomprensibile latitanza.

Dalle sconfitte s’impara. Al di là della retorica, da quest’occasione mancata è giocoforza ricavare una lezione di modestia, il ridimensionamento di un orgoglio nazionale che facilmente sbanda in autocompiacimento o, peggio, in ostilità e disprezzo degli altri. Ed è, del resto, un effetto collaterale della pandemia, a sua volta un virus parallelo che sta offuscando la visione reale delle cose, incentivando la corsa a un primato da raggiungere su percorsi contrastanti: immunità di gregge, lockdown totale, aperture-chiusure alternate, prima la salute o l’economia. L’obiettivo: dimostrarsi i migliori. Non rappresenta, certo, una prerogativa elvetica. Si è manifestato, in forme esasperate, al limite del grottesco, come avviene nella vicina Italia. Ne siamo testimoni noi ticinesi, assidui spettatori dei programmi, diffusi dalla Rai, dalla 7, da Mediaset, dove questo nazionalismo da virus si spreca, in ogni ambito e occasione. Tricolore a iosa, persino sulle mascherine di politici in cerca di consensi. La definizione eccellenza applicata alla sanità pubblica come alla Nutella e alle ferrovie.

È persin comodo registrare i vizi altrui, ricavandone la consolazione che c’è chi fa peggio. Ma non è neppure il caso di sfruttare quest’occasione mancata per denigrare un paese che continua ad assicurarci un’esistenza dignitosa. Si tratta, piuttosto, di far ordine fra i nostri sentimenti. Un conto è il patriottismo, quel senso di appartenenza al terroritorio e alla collettività che ci circondano. Un conto il nazionalismo che coltiva il mito di una superiorità discriminatoria e illusoria. È bastata una pandemia per buttarla all’aria.