Il primo pezzetto dell’accordo tra Londra e Bruxelles sul Protocollo nordirlandese è stato votato dalla Camera dei Comuni con una grande maggioranza. Per la prima volta da quando i parlamentari britannici hanno valutato (e spesso bocciato) i risultati dei negoziati sulla Brexit, cioè per la prima volta da anni, la rivolta è stata contenuta, ed è stata contenuta dal primo ministro, Rishi Sunak.
Sunak è a favore della Brexit da sempre: quando era sottosegretario nel Governo di David Cameron e ci si posizionava per il referendum del 2016, quel giovane conservatore disse al suo capo che non sarebbe stato dalla sua parte, perché considerava l’uscita dall’UE una occasione. Sette anni dopo, Sunak si ritrova premier – scelto per l’incompetenza della premier venuta prima di lui, Liz Truss, ma le primarie del partito lui le aveva perse – e deve gestire una Brexit che non si è concretizzata né come voleva lui né come si aspettavano molti dei suoi compagni di Governo e di partito. Ha scelto di farlo mettendo da parte convinzioni e fantasie, introducendo invece razionalità e pragmatismo. Si potrebbe dire che non avesse molte alternative, essendo il bilancio della Brexit impietoso, ma non è del tutto vero: la tentazione di applicare al processo della Brexit teorie che si sono già rivelate fallimentari è ancora presente. Oltre alla razionalità, Sunak ha introdotto un altro elemento: il silenzio. Dei negoziati tra il Governo di Londra e l’UE sul Protocollo nordirlandese si è saputo molto poco, solo quando si è trovato l’accordo ci sono stati annunci e dichiarazioni. Nemmeno dei negoziati interni al Partito conservatore e con i partiti brexitari dell’Irlanda del nord si è saputo granché, tant’è vero che si è arrivati al primo voto ai Comuni con aspettative alte e poche polemiche. Il premier, che ha un forte senso di autoconservazione oltre che la responsabilità di rimettere assieme i cocci del Paese, ha realizzato che il dibattito continuo e incontrollato sulla Brexit, spesso condizionato più dall’ideologia che dalla realtà, era diventato un boomerang, e che il rischio di restare ancora una volta paralizzati era molto alto. Se si guardano i negoziati sulla Brexit da una certa distanza, risulta chiaro che l’ostacolo principale a un divorzio più tranquillo possibile non è stata l’ostilità dell’UE ma la lotta interna al Partito conservatore. Sunak è riuscito a disinnescare buona parte di questo perpetuo scontro interno.
Non tutto. La mattina del voto, l’ex premier Boris Johnson, che deve la sua carriera nazionale e il suo potere proprio alla Brexit definita «done», realizzata, in modo prematuro, ha detto che avrebbe votato contro al primo voto sull’accordo della stagione Sunak. Al di là del merito – Johnson ha rimandato la decisione sul Protocollo nordirlandese, durante il suo mandato, perché sapeva che avrebbe diviso il suo partito e perché è sempre stato più vantaggioso addossare le colpe dei fallimenti a Bruxelles piuttosto che assumersi la responsabilità di gestire il divorzio cambiando alcune condizioni diventate irrealizzabili – l’ex premier ha voluto colpire Sunak, ma anche contare i suoi alleati in Parlamento. Johnson è stato destituito da una decisione del Partito conservatore in seguito al partygate, lo scandalo sulle feste a Downing Street quando le regole del lockdown non le permettevano, ma gode ancora di molta lealtà tra i Tory, aumentata dal rimpianto di averlo cacciato che si è sviluppato durante la breve esperienza di Truss. Non ci vuole stare, insomma, e anzi «il ritorno di BoJo» è diventato un filone narrativo molto presente sui media britannici.
Ma quanto è grande questo consenso? L’ex premier ha voluto verificarlo con il voto sul Protocollo. Quello stesso giorno però Johnson testimoniava davanti a una commissione dei Comuni proprio sul partygate: è accusato di aver violato le restrizioni e di aver mentito al Parlamento quando ha negato di essere a conoscenza delle violazioni. Johnson ha mantenuto la sua linea anche durante la sua testimonianza, ha ribadito di non aver detto alcuna bugia e di non aver tradito la fiducia di nessuno. La commissione dovrà decidere e in gioco c’è lo stesso ruolo da parlamentare di Johnson, ma nelle stesse ore il conteggio dei johnsoniani nell’aula dei Comuni non è andata troppo bene. Questo non vuol dire che l’ex premier non abbia il sostegno che si aspettava, quanto piuttosto che il pragmatismo immesso da Sunak nelle dinamiche relative alla Brexit sembra essere apprezzato e che se mai un giorno Johnson dovesse tornare questa stessa concretezza potrebbe essere richiesta anche a lui.