Sulla soglia del libro

/ 25.01.2021
di Paolo Di Stefano

«Nessun libro che parla di un libro dice di più del libro in questione». È un pensiero di Italo Calvino con cui si apre un libro sui libri: Fuori di testo di Valentina Notarberardino (Ponte alle Grazie, voto 5+). Perché «fuori di testo»? Perché vengono raccontati i cosiddetti paratesti, cioè quegli elementi che fanno parte del libro ma stanno fuori dal testo vero e proprio e che gli fanno da cornice. Copertine, titoli, risvolti, quarte di copertina, fascette promozionali, dediche e altri «margini».

È la materia di cui si è occupato il critico (strutturalista) francese Gérard Genette in un saggio del 1987 intitolato Soglie. Le soglie spettano soprattutto all’editore, alla sua sensibilità, al suo gusto, alla sua abilità (commerciale). L’editore migliore è quello che cerca un’armonia tra la soglia e il testo, senza enfatizzare l’arredo e senza pensare che l’abito faccia il monaco anche in mancanza del monaco, cioè di un testo degno di essere pubblicato. Fatto sta che in genere, se il libro «funziona» , gli editori si prendono volentieri il merito di averlo «vestito» bene; se «non funziona» se la prendono con l’ottusità del pubblico e (più velatamente) con la difficoltà dell’autore: nel gergo editoriale, definire «molto letterario» un romanzo è solo in apparenza un complimento, in realtà significa che ha poco pubblico.

A parte ciò, quante volte abbiamo sentito dire che il successo di Va’ dove ti porta il cuore (4+) è dovuto anche al titolo (accattivante) e che le eccezionali vendite della Solitudine dei numeri primi (5) di Paolo Giordano sono anche (soprattutto) il risultato della straordinaria combinazione tra titolo e fotografia di copertina. Chissà se con il titolo originario cui aveva pensato l’autore, Dentro e fuori dall’acqua, il romanzo avrebbe avuto la stessa fortuna. Secondo me, detto molto cautamente, non va affatto escluso. Viceversa, non mi sento di escludere che se Il nome della rosa (5+) fosse stato L’abbazia del delitto, prima ipotesi di Umberto Eco, avrebbe avuto meno fascino. Ma del senno di poi son piene le fosse (delle case editrici).

Ci sono autori che amano metterci, nelle soglie dei loro libri, tutto ciò che possono, non solo nome e cognome, ma vita, opere senza omissioni, fotografie. E ci sono autori che preferiscono tenersi nell’ombra. Céline disse al suo editore: «Odio le foto! Diletto da scimmie: attori! Politici!». A Calvino, redattore e ufficio stampa einaudiano, che nel 1952 gli chiedeva un ritratto in prossimità dell’uscita de I ventitré giorni della città di Alba (6–), Beppe Fenoglio rispose che era da sette anni che non si faceva fotografare. Sciascia non chiese mai uno scatto all’amico fotografo Ferdinando Scianna, che pure gliene fece a centinaia per circa due decenni. Solo in extremis, quando capì che stava morendo, in maglia della salute e con i capelli cortissimi, Leonardo gli disse: «Fammi una fotografia», ben sapendo che sarebbe stata l’ultima.

Nei casi migliori, l’editoria non lascia nulla all’improvvisazione, ma molto dipende dal rapporto (di forza) tra editore e scrittore, oltre che dalla consapevolezza, dall’understatement o dal narcisismo di quest’ultimo. Spesso vanità ed esigenze di marketing vanno d’accordo, specie se l’autore o l’autrice sono molto giovani, carini, spiritosi, televisivi, fotogenici, corretti, scorretti, diversi, uguali, dandy, outsider, maledetti, bruschi, impegnati in qualcosa, molto qualcosa al punto da fare di quel «qualcosa» il proprio brand. A volte sparire è meglio che apparire, come insegna il caso di Elena Ferrante, che decisamente alla lunga si è avvalsa (meglio avvals*), oltre che del suo talento, anche del mistero da cui è avvolt*.

L’asterisco è usato da Notarberardino nell’introduzione, in cui si rivolge al lettore e alla lettrice con ironia, confessando il suo «colpevole divertimento» nello studiare le soglie e nello scriverne. Divertimento che è sempre un’ottima premessa per catturare il lettore e la lettrice al di là dell’efficacia di tutte le soglie, le sogliole o le «fascette per le allodole». Tra le dediche ne cito una sola. Quella che apre Ladri di biciclette (5), il romanzo di Luigi Bartolini, uscito con l’editore Polin nel 1946, circolato in pochissime copie ma capitato nelle mani di Cesare Zavattini, che lo propose per un film a Vittorio De Sica (ne venne fuori un capolavoro del neorealismo, 6+). Il romanzo fu ripubblicato da Longanesi nel 1948, ma la dedica rimase la stessa: «Ai ladri romani, pregandoli di non rubarmi la bicicletta per la quarta volta».

Devo ammettere che ho scelto la dedica di Bartolini per poter concludere questo articolo ricordando un fatto di cronaca edificante. Dai ladri di biciclette ai ladri d’auto del nostro tempo. Quelli di Bari, che la scorsa settimana hanno rubato una Fiat Doblò, ma quando hanno saputo che la macchina apparteneva a una signora disabile, l’hanno restituita con tanto di biglietto di scuse: «Anche noi abbiamo un cuore. Scusateci non sapevamo della vostra patologia… Scusateci ancora…. I ladri» (6+++). Titolo del romanzo che ne potrebbe uscire: Anche noi abbiamo un cuore. Fascetta per le allodole: «Un capolavoro neorealista al tempo del Covid» (6 preventivo, ovvio).