Una delle notizie più interessanti degli ultimi tempi, sui giornali italiani, riguarda l’esigenza di rifornire le scuole, per settembre, di banchi con le ruote. Infatti, il ministero dell’Istruzione avrebbe già indetto un bando per l’acquisto di almeno tre milioni di «sedute scolastiche attrezzate di tipo innovativo, ad elevata flessibilità di impiego, per gli istituti della scuola secondaria». Non si capisce perché, ma solo questi banchi semovibili garantirebbero il cosiddetto distanziamento sociale imposto dalle nuove norme anti-Covid.
Subito, ovviamente, si sono scatenate le ironie: Massimo Gramellini, ne Il Caffè, la rubrica quotidiana del «Corriere della Sera» (5½: provate voi a scrivere tutti i giorni trenta righe davvero degne di una prima pagina!), ha auspicato che il banco venga perfezionato in un Ferrarino monoposto tipo Formula Uno non soltanto a rotelle ma motorizzato (e rigorosamente elettrico per ragioni ecologiche), in modo da rendere più comodo e rapido lo spostamento intorno ai secchioni, durante i compiti in classe. In tal caso si tratterebbe, eventualmente (ma questo lo aggiungo io), di riflettere se dotare l’automezzo di cambio automatico o manuale, di freno a pedale e a mano, di cinture di sicurezza, airbag, aria condizionata, finestrini elettrici, ma soprattutto di tettuccio apribile, di gomme per la neve e di tergicristalli in caso di pioggia all’interno della classe, viste le condizioni precarie delle strutture scolastiche. Per quanto mi riguarda, posso testimoniare che non più di un anno fa, in una mattinata invernale, mi è capitato di dover aprire l’ombrello per attraversare il corridoio di un liceo lombardo e raggiungere l’aula magna dove avrei tenuto una conferenza.
«Se la mi’ nonna aveva le rote, era ’na carriola», recita un antico proverbio toscano per dire che alcune cose sono semplicemente impossibili. In effetti, pensare di mettere le ruote ai banchi per migliorare le scuole, è una pia illusione. Forse sarebbe utile mettere un paio di ruote a qualche ministro o a certi professori e dar loro una bella spinta. Gioverebbe al distanziamento definitivo. Ci sono insegnanti meravigliosi che durante il lockdown hanno moltiplicato l’impegno e la fantasia e ce ne sono altri che ne hanno approfittato per nascondersi all’ombra del virus.
Mi sono arrivati racconti a proposito di una docente di scuola media che cercava ostinatamente di fare lezione online da casa sua lottando contro i due figlioletti che le saltavano sulle spalle e la tormentavano di richieste (6–); di alcuni suoi colleghi, viceversa, non pervenivano notizie per settimane (2). Indubbiamente, le scuole sono diventate un problema. Non meravigliamoci se qualcuno (un sovranista a caso nell’ampio e colorito repertorio che va da Trump a Bolsonaro) salterà su a dire che bisogna chiuderle tutte e non riaprirle mai più. Tanto, a che servono? Sono soltanto un disturbo alla normale corsa verso l’ignoranza al potere.
Del resto, tempo fa l’onorevole Matteo Salvini (3––) aveva sbraitato contro la scuola media, assicurando che fosse stato per lui l’avrebbe cancellata in quanto «buco nero», anzi inutile «area di parcheggio»: per sostituirla con che cosa? Con niente. Semplicemente montando qualche ruota sotto il sedere dei ragazzi più volonterosi, si passerebbe in velocità dalle elementari al liceo, anzi all’università, anzi forse direttamente al mondo del lavoro o al Parlamento (come ha fatto lo stesso onorevole Salvini, che non ha avuto bisogno di studiare per ritrovarsi forse persino a sua insaputa ministro degli Interni).
Per fortuna escono ogni tanto vaccini efficaci (efficaci per chi abbia voglia di utilizzarli, ovviamente) contro il virus dell’imbecillità e dell’ignoranza esibita come un manganello. Per esempio, ecco le Lettere scontrose di Giovanni Arpino, una serie di epistole immaginarie che lo scrittore di Pola, piemontese di adozione, pubblicò sul settimanale «Tempo» tra l’ottobre 1964 e il novembre 1965 e che ora per la prima volta vengono raccolte postume in volume da minimum fax: 5+ all’editore, 5½ al polemista a volte ironico, altre volte spietato, spesso profetico, sempre ispirato da «un’elementare esigenza di giustizia e un minimo di civile indignazione» nel segnalare alcune stranezze del costume del suo tempo.
Non apocalittico come Pasolini, non amaro come Sciascia, non funambolico come Eco, ma forse ancora più tagliente in virtù di un pacato quanto apprezzabile buonsenso. Sia che si tratti di pretendere da Sofia Loren che paghi le tasse come tutti, sia che si tratti di esprimere il proprio disgusto verso la mitezza delle pene inflitte agli aguzzini di Auschwitz.
Stranezze, viltà, furbizie, protervie, spavalderie, crudeltà che si ripropongono oggi con attori diversi ma con modi e toni quasi immutati. Sarebbe una pia illusione allontanarle da noi provando a caricarle confusamente su un megabanco dotato di ruote a cui dare una spintarella leggera e non pensarci più. Ma almeno un Arpino capace di un minimo di civile indignazione sarebbe un’iniezione salutare, indispensabile… Purtroppo vige per lo più il silenzio o la collusione nei confronti della stupidità semovibile, a due, tre o quattro ruote.
Stupidità su quattro ruote
/ 27.07.2020
di Paolo Di Stefano
di Paolo Di Stefano