Stralunati, eccentrici, quasi dimenticati

/ 05.09.2022
di Paolo Di Stefano

C’è poco da fare, ci sono scrittori che nascono minori e muoiono minori. Possono anche maturare sogni di eterna gloria in vita, magari vincendo grandi premi e vendendo decine di migliaia di copie, ma poi, alla resa del tempo, non riescono a entrare non dico nell’empireo ma neanche, se non di striscio, nel canone o nelle antologie. Rimanendo agli italiani, prendete il premio Strega e scorrete l’elenco dei vincitori. Ci sono Cesare Pavese, Primo Levi e Claudio Magris, mancano però i nomi di Calvino, di Gadda, di Sciascia e di Pasolini, quelli che formano la struttura del canone del secondo Novecento. Gli irrinunciabili delle storie letterarie. E gli altri? Gli altri «stregati» sono autori che un lettore di cultura media raramente ha sentito nominare. Che cosa dicono a un lettore del 2022 Corrado Alvaro (5), Giovanni Comisso (5+), Mario Pomilio (5+), Giuseppe Dessì (5), Lalla Romano (5½), Raffaello Brignetti (4½), Mario Tobino (5+), Manlio Cancogni (5½)? Non ci giurerei, ma temo che per tanti lettori di oggi siano soltanto l’eco di un’eco lontana. Eppure, sono nomi e cognomi di gente che ha avuto in vita momenti di autentico tripudio, corteggiamenti editoriali, successi da far invidia, riconoscimenti critici eccelsi e per lo più meritati (almeno secondo il sottoscritto: vedi i voti d’aria assegnati sopra). Per quanto mi riguarda non baratterei un «minore» come Cancogni o come Pomilio (torna in questi giorni il suo Quinto evangelio) con uno degli scrittori considerati pesi massimi nell’estate 2022. Non scambierei Lalla Romano con nessuna delle scrittrici attuali, magari predestinate alle antologie del 2070.

Càpita, l’ultimo libro di Gina Lagorio (5½), nata esattamente cent’anni fa, scrittrice ligure amica di Camillo Sbarbaro e di Beppe Fenoglio, è un intenso, commovente, duro resoconto della malattia e del dolore fisico e spirituale che si prova in una camera d’ospedale sapendo di essere vicini alla fine: è il bilancio implacabile di una lunga vita, uscito nel 2005. Da allora è stato ristampato più volte, ma non risulta tra i libri di riferimento in nessuna autorevole rassegna letteraria del nuovo millennio. Di recente, nell’anniversario della nascita di Lagorio, è stato ristampato da Garzanti Approssimato per difetto, altro bel romanzo sulla precarietà e sull’amore della vita nei suoi momenti estremi. Un capolavoro? Forse. Da leggere? Sicuramente. Ma perché nessun giornale ne ha parlato, mentre ci si affanna a recensire l’ultimo mediocre esordiente? Qualcuno ricorda Giuseppe Marotta, napoletano nato nel 1902 e morto nel 1963? No? Eppure, nel 1947 ha scritto L’oro di Napoli, da cui Vittorio De Sica (con Cesare Zavattini) ha tratto l’omonimo film con Totò. Dunque, provate a leggere i racconti di Coraggio, guardiamo (5+), usciti nel 1953 e riproposti ora da un editore poco noto, Alessandro Polidoro. Leggeteli, perché nella misura breve Marotta riesce ogni volta, con uno stile molto accurato (e delicato), a disegnare ironici e malinconici, fulminei quadri di vita quotidiana, tra anni 40 e 50, vissuta dal basso a Milano, a Genova, a Napoli, a Torino. Non è vero che i minori vengono ignorati dagli editori: né dagli editori minori né, qualche volta, dai maggiori. Prendete, tra gli appartati, l’autore più appartato e stralunato di tutti: il modenese Antonio Delfini (1907-1963). In un video Rai dell’anno della morte lo vediamo leggere le sue Poesie della fine del mondo, composte con soli titoli di giornale. Ora disponiamo, grazie all’Einaudi e alla cura di Irene Babboni, dei bellissimi Diari (5½) di questo scrittore scontroso, autore di racconti memorabili riuniti nel 1938 sotto il titolo Il ricordo della Basca, amato da Montale, da Pasolini e dal suo critico più convinto, Cesare Garboli, ma rimasto in vita e in morte un eccentrico e quindi un isolato. I suoi diari tracciano, come scrisse Garboli proponendoli all’editore nel 1979, «la vita disperata e sperperata di un giovane di provincia molto sensibile, molto vulnerabile, molto perbene, un po’ matto e bizzarro in apparenza, in realtà terribilmente nevrotico, il quale passa attraverso il fascismo, il dopoguerra, gli anni della DC, la cultura di massa, ecc., ponendosi domande da “italiano” sempre più stupefatto, attonito, costernato, finché l’ingenuità si spegne nella delusione totale e nella maledizione». Un grande minore come altri, più di altri, che non ebbe sogni di gloria neanche in vita.