Strada stretta per Boris

/ 30.09.2019
di Paola Peduzzi

Il Parlamento inglese è tornato al lavoro, anche se il primo ministro Boris Johnson non voleva e anche se un suo ministro ha detto che i Comuni sono «morti» e «non hanno alcun diritto di riunirsi». La Corte suprema, questa istituzione che ha solo vent’anni di vita e che fino a ora era sconosciuta ai più, ha stabilito che la decisione di Johnson di sospendere i lavori parlamentari fino al 14 ottobre era «illegale, nulla e senza effetti»: il giudice che presiede la Corte, Lady Brenda Hale, è diventata in un attimo l’incarnazione della democrazia britannica, con il rispetto dello stato di diritto e della divisione dei poteri (e pare che le sue spille vistose siano diventate il feticcio degli anti Brexit). Il premier non voleva troppi ostacoli e dibattiti sulla Brexit, così aveva pensato bene di eliminarli tout court mandando in vacanza i parlamentari, che sono anche impegnati nelle conferenze annuali dei partiti, una scusa in più per non riunirsi. Ma il suo piano istituzional-politico è fallito, non soltanto perché la Corte ha rimandato i parlamentari al lavoro, ma perché i Comuni fino a ora hanno dato unicamente cornate al primo ministro. 

Al momento è stata votata una legge che impedisce il «no deal» – e che Johnson naturalmente non voleva perché il suo piano A era proprio andar dritto al 31 ottobre senza negoziare nulla – mentre la richiesta del primo ministro di indire elezioni subito è stata bocciata. Così la strada verso il 31 ottobre, deadline della Brexit, che a Johnson pareva larga e piena di opportunità è diventata strettina: il premier deve negoziare un altro accordo con l’Unione europea entro il vertice del 18 ottobre; oppure può rimettere ai voti l’accordo di Theresa May, che è già stato bocciato tre volte ai Comuni (e che rappresenta dal punto di vista politico uno smacco enorme per Johnson: la vedete la May seduta sul fiume, sì?); oppure deve chiedere un’ulteriore proroga dell’articolo 50, cioè tradire l’unica promessa fatta: l’uscita del Regno Unito dall’Ue a ogni costo entro la fine di ottobre. C’è sempre la scappatoia delle elezioni anticipate, ma a questo punto i tempi sono molto stretti.

Su questa strada strettina, non sta scomodo soltanto Johnson. Sta scomodo anche il suo guru, Dominic Cummings, l’ideatore di questa strategia ai confini della legalità che è riuscito a perdere tutti i voti in Parlamento, il sostegno della maggioranza e anche la battaglia legale. Persino Nigel Farage, leader del Brexit Party che fino a qualche giorno fa faceva disegni elettorali assieme ai Tory, oggi chiede le dimissioni di Cummings. Ma sta scomodo anche il Labour, che in questi tre anni di opposizione ha fatto il record delle occasioni mancate. L’ultima è stata perduta proprio in questi giorni, quando il leader del partito, Jeremy Corbyn, non soltanto ha confermato la sua ambiguità dicendo che, in un eventuale referendum sulla Brexit, rimarrà neutrale, ma ha anche imposto la sua linea al resto del partito che, grazie all’appoggio dei sindacati, ha bocciato una mozione che schierava il Labour inequivocabilmente per il «remain». Ora Corbyn si trova di fronte a un altro dilemma: Johnson gli sventola davanti l’opzione elettorale, e il leader del Labour vorrebbe molto afferrarla perché il suo obiettivo non è tanto fermare la Brexit quanto andare al potere, ma nelle urne non è detto che poi riesca davvero a sconfiggere i conservatori. Facciamo prima un referendum e togliamoci il pensiero della Brexit, lo consigliano in molti, ma Corbyn sembra sordo a questo suggerimento, e Johnson lo sa: un’elezione voluta dal Labour e poi persa dal Labour sarebbe invero la più sconfortante delle occasioni mancate. Ma tra tutti gli scomodi ci sono anche i parlamentari stessi: è vero che nei pochi giorni di settembre il Parlamento ha bloccato di fatto l’azione del governo, ma in tutti i voti precedenti, non è riuscito a dare un indirizzo propositivo di alcun genere. Ai Comuni non c’è una maggioranza per un accordo, non c’è una maggioranza per un non accordo, non c’è una maggioranza per revocare l’articolo 50, non c’è una maggioranza per un’elezione, non c’è una maggioranza per il secondo referendum e non c’è una maggioranza per votare la sfiducia a Johnson. Ecco perché, ora che il Parlamento ha ricominciato a lavorare, nessuno si sente sollevato: c’è la vittoria sulla brutalità del premier, certo, ma dove si va, in questa strettissima strada, ancora nessuno lo sa dire per certo.