Milletrecento persone c’erano, ad ascoltare noi centoventi cantanti stonati, cioè cantanti del Coro degli Stonati. Lo scorso sabato l’evento, che molti avrebbero voluto passasse magari più in sordina, è stato celebrato da radio, giornali, televisione. Il mondo stupisce davanti alla dichiarazione di non capacità, non efficienza, non dote naturale: partecipi al coro solo se non sei intonato. Mentre i genitori anche per quest’anno hanno pagato il tributo ai saggi dei figli, tutti futuri ballerini, giocolieri, musicisti, attori, mentre a breve ci prepariamo all’ascolto delle prodezze compiute in vacanza da protagonisti di ogni età, a Milano si ritrovano gli «stonati», da sei anni all’Auditorium di largo Mahler, quello dell’Orchestra Verdi. Che poi qualcuno lo sarà meno di altri, sennò come si può a mettere in piedi un qualsivoglia canto? Non credo infatti che sia vero ciò che Maria Teresa, la coraggiosa e brava maestra del coro, va sostenendo, che non esistono stonati, ma solo bambini vittime di un trauma: alcuni sono proprio stonati (anche tra gli appartenenti al coro), io per esempio ho imparato un poco a cantare con gli altri, ma da sola non so rifare nemmeno una battuta delle non impossibili musiche cantate l’altra sera.
Ma che bella, l’altra sera. Tutti in nero, cantori dai diciotto agli ottant’anni, docenti universitari e portinai, giornalisti e pensionati di quelli che se non sono al coro vanno a seguire i lavori per strada. A proposito di giornalisti: mica ti trovo al coro nel turno del giovedì (stonati e pure principianti) il Tommaso, che eravamo insieme alla scuola dell’Ordine, alcuni decenni fa? Adesso lavora al «Corriere della Sera» e dopo essersi iscritto al coro ha deciso di darne un settimanale ragguaglio sulla pagina web del giornale (un po’ della fama del coro a lui è certo dovuta, un bel po’). Mi ha intervistata, due mesi fa, che cosa ci fa una filosofa al coro degli stonati? Divertente e affettuoso, contraccambio e intervisto anche io, più informalmente, sono pur sempre una filosofa. Così, all’Auditorium, prima che i milletrecento lo riempiano, tra una prova e l’altra gli chiedo come sia nata e come sia andata questa avventura. «Un disastro», mi dice e mi sorprende. «Un disastro dal punto di vista giornalistico», precisa con quella erre arrotata così Milano per bene. «Mi sono iscritto per tentare l’impossibile, non sono mai riuscito a cantare. Poi ho pensato di scriverne, convinto che avrei raccontato di figuracce, stecche, pianti». Insomma, scene comiche o drammatiche, a seconda dei punti di vista. Invece? «Invece abbiamo imparato a cantare! E senza fatica, serenamente, come se fosse del tutto naturale».
Un metodo innovativo e stupefacente? No, concordiamo, semplicemente trattare gli stonati, per dirla meglio coloro che non sono mai riusciti a cantare, come persone che possono imparare, con lo stesso metodo che si usa per gli intonati e, certo, molta molta pazienza. Lo sa bene Tommaso, voce da tenore, che insieme a un collega dalla voce di basso (molto più stonato di lui, s’ha da dire) ha provato per mesi un assolo: una manciata di note che introduce Banana boat e che richiede i due solisti. Ogni giovedì, Maria Teresa e il pianista hanno fatto ripetere ai due, senza impazienza, quel «re» iniziale, perché tutto, o molto, è nell’inizio. «Insomma si impara l’accettazione serena di un proprio limite» ribadisce Tommaso: non siamo portati per il canto, non canteremo mai come gli intonati, però qualcosa possiamo farla anche noi.
E qui si riprende il tema di prima: saggi, esibizioni, presentazioni. Foto, video, commenti, tutto quello che facciamo deve essere superlativo perché poi viene da noi commercializzato. Dash laverà anche più bianco, come diceva la vecchia pubblicità, ma le mie vacanze sono migliori delle tue. Ho visto posti più belli, ho vissuto più rischi e avventure, oppure più lussi e comodità, ho esercitato sport più nuovi e acrobatici, ho mangiato più cavallette (blah, non mi convincerete, non è vero che sono come le aragoste, non scherziamo). Che pace, in questa rincorsa autopromozionale, trovarsi con persone che sanno di non saper fare qualcosa, qualcosa che ad altri viene invece facilmente. Senza umiliazioni, ma riscoprendo il sublime gusto del fare non per raggiungere vette o per essere migliori di altri, il fare – meglio che si possa, sapendo che è sempre un meglio relativo – per fare, cantare per cantare, serenamente. Non cantano così anche gli dei?