Stilisti in disarmo?

/ 20.05.2019
di Luciana Caglio

L’ultimo a fare veramente notizia è stato Karl Lagerfeld: per la precisione, il 19 febbraio scorso, giorno della sua morte. In quell’occasione, i media all’unanimità hanno rievocato, in termini elogiativi, il geniale eclettismo di un maniaco del lavoro. «Disegno come respiro»: così spiegava una vena creativa inesauribile e multiforme, amministrata con rigore, che gli aveva aperto le porte dei musei: dove esponeva opere sue, schizzi, figurini, fotografie, scenografie, tessuti come pure oggetti d’arte da lui collezionati. Un personaggio, insomma, che occupò la scena della moda, della mondanità e della cultura, da autentico protagonista, da «Kaiser» com’era chiamato, con rispettosa ironia.

Si tratta di un ruolo che, ormai, sembra spettare alla categoria degli «over», per usare un eufemismo. Persone che, sia pure in buona forma e con disinvoltura, hanno raggiunto e superato le soglie dei 60, 70, 80 e oltre. Tanto da rappresentare una sorta di comune denominatore, un attributo professionale. Lagerfeld aveva 85 anni. Osservando la schiera dei suoi colleghi, ci si deve arrendere all’evidenza: i più noti e capaci, quelli che hanno lasciato un segno sull’estetica popolare e sul nostro guardaroba appartengono, chiaramente, agli «over». Gli esempi si sprecano, in un elenco che vede in testa Valentino, seguito da Giorgio Armani, Calvin Klein, Dolce e Gabbana, Miuccia Prada, Ralph Lauren, John Galliano e via enumerando gli esponenti di una tradizione che, per questioni anagrafiche, pare destinata a esaurirsi. Manca il ricambio generazionale.

Sia chiaro: non si sta parlando della totale scomparsa di un talento creativo, oggi al servizio di un enorme settore industriale e commerciale, e neppure di un vero e proprio disamore del pubblico per l’abbigliamento. Tuttavia, fra chi propone la moda e chi l’adotta, il rapporto è profondamente cambiato. Com’è cambiato il concetto stesso di moda che, fino agli anni 60, comportava, di stagione in stagione, un rinnovamento in termini perentori.

Bisognava adeguarsi alle regole del momento: pantaloni aderenti o a zampa d’elefante, spalle imbottite o morbide, tacchi a spillo o ballerine, colori pacati o squillanti, gonne lunghe, corte o mini, come aveva deciso Mary Quant. Fu lei, probabilmente, l’ultima stilista in grado d’imporre una tendenza di successo mondiale, in un ambito dove conquistava terreno l’opposto: l’antimoda, figlia del ’68, poi, a sua volta, riassorbita dal consumismo e dalla globalizzazione. Basti pensare, al suo simbolo: i jeans, ai quali, adesso, sarebbe difficile attribuire un significato ideologico. Anzi, presentandosi con buchi e sfilacciature sembrano addirittura un insulto alla povertà vera.

Non di meno, il successo universale del denim, passato da tessuto per tute da lavoro a blazer da sera, come pure quello delle sneaker, ex-scarpe da tennis promosse a calzature da città, multicolori e costose, o ancora degli zainetti magari in pelli pregiate confermano una svolta, nei consumi e nelle mentalità: ispirata alla semplicità, al body building, all’unisex e soprattutto al rifiuto dell’autoritarismo. Nell’era antisistema, avanza anche il «fai da te» applicato all’abbigliamento. Detto fra parentesi, meno dannoso di quello politico, almeno se si guarda oltre frontiera.

Fatto sta che lo spirito anticasta ha colpito gli stilisti, in disarmo sul piano mediatico. A prima vista, la loro perdita di potere è parsa una conquista di autonomia per il grande popolo dei consumatori. Nei cui confronti, adesso, ci s’interroga: veramente liberi di vestirci come ci pare? Ora, proprio i consumatori più vulnerabili, i giovanissimi, se ignorano i diktat di Armani, si affidano alle scelte, via social, imposte dagli influencer, fra cui domina la coppia Ferragni-Fedez e bebè. Come dire, non più dipendenti dal potere di un’élite di professionisti ma follower, seguaci di abili imbonitori. Forse, di male in peggio.

Intanto, agli stilisti sono subentrati, in qualità di star su teleschermi e giornali, gli chef, autori di capolavori, ancora più effimeri, raffinati dei modelli haute couture, e persino misteriosi. La complessità di certe ricette è da capogiro.