«Statu quo» sinonimo di vuoto al vertice?

/ 25.03.2019
di Ovidio Biffi

Mi sento strattonato. Da una parte dalla campagna elettorale per il rinnovo dei poteri cantonali; dall’altra dalle notizie dal mondo che i vari media ci inoculano in dosi sempre più massicce disquisendo su crisi e pericoli della democrazia. Come la maggior parte dei cittadini fatico a ritrovare quella serenità senza la quale risulta difficile, non solo interpretare ciò di cui siamo partecipi o veniamo informati, ma anche prendere le giuste misure o attivare filtri per non lasciar prevalere il pessimismo. Non che prevalga lo sconforto, solo scarseggiano sempre più argomenti utili a rafforzare la fiducia. A metà circa del cammino verso il fatidico «responso delle urne», a complicare le cose sono arrivati anche i rilevamenti di un sondaggio (commissionato dal gruppo «Corriere del Ticino») con un’indicazione piuttosto deludente: molto probabilmente voteremo per ribadire lo «statu quo». Non che si sia arrivati a un fatidico «ma allora si vota per niente». Ma di sicuro c’è un rischio più pronunciato che tutto quello che molti avrebbero voluto cambiare, o comunque veder mutato, possa alla fine restare come prima.

Davanti alla prospettiva di una continuità che, diciamocelo pure, in fondo riflette quanto abbiamo visto nella legislatura appena archiviata, è oggettivamente difficile sperare in un nuovo quadriennio in cui gli eletti decidano e si impegnino concretamente a governare e magari a realizzare quello che loro stessi o i loro predecessori non sono riusciti a fare, in sostanza: quello che la nostra comunità si aspettava. E poiché l’ipotesi di uno «statu quo» non sembra aver intaccato o turbato il clima abbastanza soporifero della campagna elettorale, anche per sfuggire alla prolungata aridità di argomenti provo a evidenziare i lati negativi di una simile previsione. Inizio non sulla base di altrettanti dati derivati da sondaggi o resoconti più o meno scientifici, ma più semplicemente guardando le folte liste per governo e legislativo, seguendo le presentazioni dei candidati che tutti riceviamo dai vari partiti o dai singoli interessati. A balzare all’occhio, in parallelo con la presenza femminile, è soprattutto la consistente maggioranza di giovani. Qualcuno obietterà che è un riflesso condizionato di chi è ormai tra gli anziani. Ma in realtà è una conferma che potenzialmente sono i giovani, e solo loro, ad avere le carte in regola (e si spera anche i numeri) per diventare se non protagonisti perlomeno «condizionatori» delle prossime elezioni. Pensando a questa fascia di elettori e alle aspettative che essi portano nell’arena politica sono andato a ripescare un saggio pubblicato alcuni anni fa sul «Corriere del Ticino» (purtroppo pochi mesi prima della sua scomparsa) dall’ultranovantenne impareggiabile costituzionalista Eros Ratti. Parlando dell’attitudine per la politica, in quel lungo articolo aveva riservato largo spazio al rapporto con le generazioni in arrivo. Innanzitutto per affermare che non esiste mancanza di vocazione politica nei giovani: quello che noi amiamo criticare in realtà risulta solo un momento più o meno lungo di attesa, oltretutto sempre imposto da chi già sta facendo politica. Secondo Ratti «di principio la generazione giovanile è interessata alle cose del proprio paese come lo era quella di ieri.(…) L’allusione alla mancanza di vocazione è un modo di dire dei più anziani. È in fondo quello che diciamo noi; così come lo dicevano i nostri padri: così come lo dicevano i nostri nonni». A questo preconcetto l’autore faceva risalire anche il pericolo per i neofiti di rimanere vittime dell’emarginazione e di essere condizionati dalla scarsa considerazione. Di conseguenza consigliava ai... meno «maturi» che vanno incontro al responso delle urne di «battersi in prima persona, scevri da condizionamenti di ogni tipo ma sempre nel rispetto e nella considerazione delle opinioni altrui», perché questo atteggiamento è «indice di mentalità superiore, di spirito di sacrificio e di esatta conoscenza del significato del vivere in comunità».

Basterà questa ipotetica «superiorità» dei giovani a impedire uno «statu quo» negativo? Riusciranno a occupare sufficienti seggi in Gran Consiglio, magari a diventare «contenitore» trasversale in grado di movimentare la scena politica? Io me lo auguro. Perché davanti all’ennesimo gattopardesco cambiamento, il Ticino non ha orizzonti molto sereni. Siamo una comunità sempre fragile, impegnata a by-passare l’indebolimento strutturale della piazza finanziaria e i problemi di un turismo che continua a tagliare i rami su cui siede. A mostrare dinamismo e tenuta sono solo industrie e imprese del terziario, ma è un settore ancora impreparato a diventare guida o locomotiva della nostra economia. Il rischio di uno «statu quo» è quindi quello di eleggere un vertice politico potenzialmente vuoto, interessato più a una continuità basata sul mantenimento del potere che a difendere indirizzi, programmi e valori. Insomma: un vertice potenzialmente adatto «per essere governato da funzionari specializzati», come ammoniva Max Weber.