Statistiche del lavoro

/ 17.08.2020
di Angelo Rossi

Di solito le statistiche fanno discutere quando contengono errori oppure quando descrivono realtà che non vanno a genio a questo o a quel gruppo di interesse. In Svizzera, per esempio, le statistiche sulla pandemia di Coronavirus hanno fatto discutere da quando la stessa è cominciata. Dapprima si è messa in forse la statistica sul numero dei morti perché nei casi di malattie croniche non era chiaro quale fosse stata la vera causa del decesso. Poi si è criticato il modo di rilevare i dati perché variava da Cantone a Cantone e non consentiva di avere una visione d’assieme coerente e aggiornata del procedere della pandemia. Da un paio di settimane si critica invece l’Ufficio federale della salute perché ha commesso un errore nell’identificazione dei luoghi nei quali si è sviluppato il contagio. Al di là delle contingenze specifiche, queste polemiche servono almeno a mettere in evidenza quanto sia complicato voler misurare un nuovo fenomeno con un’apposita statistica.

Vi sono tuttavia altri esempi di statistiche importanti che, purtroppo, sollevano sempre molte critiche. Un settore particolarmente esposto è sicuramente quelle delle statistiche sul mercato del lavoro. Il problema in questo caso non è tanto quello dei possibili errori nei dati, ma piuttosto quello di dare la giusta interpretazione alle numerose statistiche disponibili, spesso rilevate con criteri diversi. Le persone che, come il vostro servitore, fanno di frequente ricorso a queste informazioni, sono perciò grate a Maurizio Bigotta e a Silvia Walker che, nell’ultimo numero di «Dati», hanno cercato di fornirci una interpretazione sistemica di questo ginepraio. Fino a qualche decennio fa – diciamo fino a metà anni Settanta dello scorso secolo – la situazione in materia era abbastanza semplice: la popolazione attiva si divideva in occupati e inattivi. Oltre agli studenti universitari, gli inattivi erano rappresentati soprattutto da donne che non lavoravano perché si occupavano esclusivamente delle faccende domestiche e dell’educazione dei figli.

Tuttavia, negli ultimi due decenni del secolo, fa la sua apparizione un fenomeno nuovo: la disoccupazione. Dopo il 1990, poi, la situazione cambia velocemente in seguito alla flessibilizzazione del mercato del lavoro, tanto che – come affermano gli autori della ricerca che commentiamo – «Si vedono sempre più frequentemente forme di lavoro che non cadono precisamente in un gruppo solo, ma anche frequenti passaggi tra i tre stati» ossia fra occupati, disoccupati e inattivi. Sono due, in particolare, gli aspetti nuovi. Il primo è costituito dal lavoro a tempo parziale. Dagli anni Ottanta dello scorso secolo l’effettivo dei lavoratori a tempo parziale non ha fatto che aumentare. Nel 2019 erano 57’208 in una popolazione di occupati residenti nel Cantone pari a 166’829, il che rappresenta un po’ più di un terzo della popolazione residente occupata.

Come sappiamo il lavoro a tempo parziale può essere una scelta del lavoratore, che desidera aver più tempo libero, ma può anche essere un’imposizione che il lavoratore accetta male perché, di per sé, desidererebbe lavorare più a lungo. Bigotta e Walker ci danno indicazioni per il 2019 dalle quali risulterebbe che il 31% dei lavoratori a tempo parziale si reputano sotto-occupati e gradirebbero quindi poter lavorare di più. Il secondo aspetto nuovo, che vorremo citare, è dato dalla disponibilità a lavorare da parte dei lavoratori che attualmente sono inattivi. Nel 2019 gli inattivi in Ticino erano 125’603. Di questi però solo 13’654, ossia il 10,8%, erano disponibili per una nuova attività lavorativa. La mia conclusione è che, alla luce di queste informazioni, si può affermare che, in Ticino, le riserve di lavoro non sono sufficienti. I Nostri, insomma, non bastano a soddisfare, da soli, la domanda di lavoro dell’economia cantonale. Se aggiungiamo infatti agli inattivi disponibili i disoccupati e i sotto-occupati arriviamo a quasi 43’500 persone il che potrebbe corrispondere a circa 35’000 posti di lavoro a tempo pieno che potrebbero essere teoricamente occupati da questi lavoratori. Anche se i lavoratori che la compongono disponessero delle qualifiche necessarie, questa riserva sarebbe però insufficiente per poter sostituire i frontalieri occupati nella nostra economia.