Stalla Madulain

/ 17.02.2020
di Oliver Scharpf

La casa engadinese antica incanta per la strombatura delle finestre, la loro irregolarità di grandezza, l’asimmetria nella distribuzione, gli sgraffiti. I fienili e le stalle di un tempo hanno un solo elemento che fa sognare: lo spazio vuoto, geometrico, tra le assi di legno. Segate in modo ondivago, accostate, creano così, in verticale, un motivo decorativo arioso che potrebbe anche sfuggire ai viaggiatori sbrigativi. Ma è un dettaglio che vale il viaggio e mi ricorda una clessidra intercalata dall’asso di quadri, in questo caso. Una stalla del 1488 diventata, qualche anno fa, galleria d’arte sulla via principale di Madulain. Duecentodieci abitanti sulla sponda sinistra dell’En, tra La Punt e Zuoz, campanile a cipolla che rallegra appena lo si incontra a tinte pastello verde pistacchio e rosa fragola con in cima alla colonnina della bifora, un mascherone con occhi da gufo. A tutto sesto, come la grande porta d’entrata, l’arco delle due finestre di Stalla Madulain (1689 m) schermate ognuna con sei assi di larice imbrunito dai secoli. Gli spiragli bui tra il legno, strizzando gli occhi, potrebbero richiamare anche dei birilli. Colpisce pure la facciata della cinquecentesca Chesa Andrea, ristrutturata a regola d’arte nel 1999 da Ruch & Partner, dove nell’asimmetria tra le undici finestre strombate di diversa grandezza, si legge un’armonia profonda, totale, esoterica. Sgraffiti solo per una finestrina, mentre nella casa a fianco dell’ex stalla-fienile, a sgraffito, trovate due draghi.

Nello spazio stretto, tra questa casa e Stalla Madulain, scende la luccicante scala in acciaio cromato di Not Vital: artista di fama internazionale nato a Sent nel 1948 con atelier a Pechino e castello a Tarasp. Dentro, il gioco di falegnameria artigiana, è capolavoro assoluto: all’interno, le assi in controluce, provocano la resa perfetta del luminoso ricamo. Qui dove si metteva il fieno, altri due finestroni a tutto sesto a valle e due sul lato est. Al contempo, a loro volta dentro si stagliano meglio le assi come gambe tornite di mobili che fanno anche venire in mente dei macinapepe, eppure è la parte vuota che cattura di più. Le steli di luce, in contrasto con le assi scure, oggi sono bianche per via di neve e cielo. S’intonano con i colori dei quadri contro le graziose mura grezze. Non sono per niente male, anzi, le quattro tele paesaggistiche al confine con l’astratto di un nero luminoso di Conrad Jon Godly: pittore di Davos classe 1962 che ha appena fatto furore a Londra con le sue portentose cime di montagne innevate. Mari avvolti da nebbia sembrano però queste ultime opere che ammiro l’ultimo giorno della mostra. Riconciliato un po’ con il mondo dell’arte contemporanea, esco dallo spazio espositivo in via Principela quindici nato nel 2014. Idea, sull’onda delle tante gallerie spuntate in Engadina – il cui volume d’affari in tre mesi di alta stagione dicono sia come quello di un anno a Londra, Parigi, New York – a partire da quella di Bruno Bischofberger del 1963, di Gian Tumasch Appenzeller e il cugino Chasper Linard Schmidlin. Giovane architetto che ha ristrutturato la stalla quattrocentesca di Madulain con tocco leggero, lasciando intatta la sua bellezza. Qualche passo nella neve ed entro nel piano sotto dove il pavimento sembra essere come quello di Ciäsa Granda a Stampa: pietre di fiume. Gian Tumasch Appenzeller mi conferma la provenienza fluviale dei ciottoli e intuisce al volo quello che mi passa per la testa dicendomi: «È un’opera d’arte in sé, vero?».

Magnetica, appoggiata sui ciottoli dell’En e illuminata dal neon, una montagna nera schiaffeggiata di bianco, emerge da pennellate di bruma. C’è qualcosa, in questa naturalezza sanguigna del gesto, della meditata precisione di un calligrafo giapponese. Pochi, oggi, sanno dipingere così il sublime del paesaggio, ritraendo senza tante romantizzazioni, la verità selvaggia della cima di una montagna elevata quando cambia il tempo. Uno è lì fuori con due airedale terrier al guinzaglio, occhiali da sole a goccia blu trasparenti, cappellino da baseball rosso degli Hiroshima Carp, la moglie giapponese armata di cassa di birre appenzellesi. È lui Godly, il Francis Bacon delle montagne. Sul tavolo c’è un articolo della «Neue Zürcher Zeitung» su di lui, un libro in tela dei suoi lavori, e un foglio dove oltre ai prezzi, scopro il titolo della serie vista prima di sopra: Dark is light. Altro titolo degno di nota è To see is not to speak tratto da un verso di Kobayashi Hideo: «To see is not to speak because words could distract your eyes». L’occhio, nel terzo spazio giù di sotto, una cantina a volta con ancora gli anelli per gli animali, cade sull’impagabile verde della muffa sulle mura dove sono esposti i bei bassorilievi cubisti in ottone e piombo di Kazuyo Okushiba, moglie ikebanista di Godly.

Dietro l’angolo i trentadue scalini della S-chala (2017) di Not Vital, maculati da isole di neve, rispecchiano l’immagine oblunga dello spettatore e strappano un sorriso anche alla donna alle mie spalle. Il buon odore insperato di letame in giro, ai primi di febbraio in Alta Engadina, rincuora e preserva questo paesino dall’artefatto e dal lusso miserevole, ricollegandosi così all’ex stalla omonima. Ultimo sguardo agli spiragli rituali tra le assi che meriterebbero una peregrinazione specifica, per determinare se cambiano da paese a paese come gli stemmi. E se tra clessidre, assi di quadri, birilli, diamanti, punte di lancia, lacrime capovolte, ci sia una loro simbologia segreta.