«Una cosa mai vista: tamil e singalesi che protestano insieme contro il governo», mi dice l’amico Navarajah, tamil fuggito dallo Sri Lanka quasi quarant’anni fa allo scoppio della guerra etnico-civile, alla vigilia della sua partenza per l’isola natia. Per un paese che non ha mai superato la divisione e la discriminazione etnica, è davvero un fatto eccezionale. Significa che il governo retto dalla famiglia Rajahpaksa è talmente inviso da riuscire ad unire (contro di sé) un paese ancora ferito da un lungo conflitto, risoltosi con massacri della popolazione civile, l’uccisione del leader delle Tigri tamil per la liberazione dell’Eelam, Velupillai Prabhakaran, nel maggio del 2009 e la sconfitta del suo esercito.
Ovvio: quando mancano pane, frutta, verdura, benzina, gas, elettricità, medicinali e tutto il resto costa più di quanto la popolazione riesce a permettersi, la rivolta diventa generale. E allora i casi sono due: o il governo cade, oppure – se è di natura autoritaria come nel caso dello Sri Lanka – tenta di mantenere il potere anche con la forza, impiegando polizia e esercito. Inizialmente, il primo aprile, il governo dei Rajahpaksa (oltre a quattro fratelli che occupavano presidenza dello Stato, presidenza del governo, due ministeri, c’era un nipote pure lui ministro) aveva scelto la linea dura. Ma di fronte ad una popolazione che non si è lasciata intimorire e ha continuato a protestare, ha mostrato un volto all’apparenza più conciliante. Il governo si è sfilacciato, molti ministri si sono dimessi, la maggioranza filo-governativa in parlamento si è dissolta, ma il presidente Gotabaya ha comunque formato un nuovo governo di minoranza, con suo fratello Mahinda ancora come capo (ma ormai in rotta di collisione con Gotabaya, tanto da appoggiare una riforma che restituisca al parlamento i poteri del presidente), nel disperato tentativo di mantenere il potere. Si rischia dunque una nuova guerra civile? La storia del paese, con il sanguinoso conflitto decennale fra tamil e singalesi, ma anche con due sollevazioni popolari ad opera dei nazionalisti singalesi di sinistra dello JVP nel 1971 e nel 1988 (con decine di migliaia di morti) lo faceva temere. Soprattutto dopo che la settimana scorsa la polizia ha aperto il fuoco sui manifestanti a Rambukkana facendo la prima vittima delle proteste. Ma il fatto che i responsabili locali della polizia siano stati trasferiti e indagati, ha fatto capire che il presidente non vuole rischiare una nuova sollevazione popolare. Anche perché persino il potente clero buddista si è schierato dalla parte dei manifestanti. Lo Sri Lanka non sarà un nuovo Myanmar. E questa è una buona notizia.
La cattiva notizia è che, comunque vadano le vicende politiche, la crisi economica attuale, la peggiore dall’indipendenza nel 1948, non può essere risolta in modo indolore, né rapido. Perché se il governo Rajahpaksa l’ha peggiorata, dopo che la pandemia e ora la guerra in Ucraina l’hanno aggravata, le cause della crisi risalgono a decenni fa. Lo Sri Lanka si era aperto al sistema capitalistico nel 1977, con l’intenzione di riformare un’economia che non teneva più il passo coi tempi (da paese più prospero dei vicini fino agli anni Settanta, si stava impoverendo). Vennero istituite delle zone industriali esentasse per creare un nuovo sistema produttivo che liberasse il paese dalla dipendenza dalla produzione agricola (il tè in testa). Complici corruzione, inettitudine, clientelismo, il paese fallì nell’intento, e sempre più le importazioni superarono le esportazioni. Durante il primo periodo al potere dei Rajahpaksa (2005-2015) il paese si avvicinò alla Cina, che offrì crediti per opere infrastrutturali miliardarie, poco utili al paese ma molto ai cinesi, ciò che peggiorò le finanze dello Stato. Tornati al potere nel 2019-2020, i Rajahpaksa hanno come prima cosa ridotto le tasse, rendendo ancora più difficile la situazione finanziaria. Nel mentre, tre anni fa c’erano stati gli attentati di Pasqua e il turismo era crollato (terza sorgente di valuta estera), quindi è arrivata la pandemia che oltre a bloccare le attività produttive del paese ha provocato un crollo delle rimesse dei lavoratori espatriati (due milioni di persone, negli ultimi 20 anni, la seconda fonte di valuta estera). Ora il paese è in default. E se anche i Rajahpaksa cedessero il potere, nessuno sa come uscire dalla crisi. Ma se non lo cedono presto, la possono ancora aggravare.