Cara Silvia,
ho un bambino di dieci anni, Marcello, che non è mai stato appassionato, diversamente dai suoi compagni, alle avventure in Tv. In questi ultimi giorni invece chiede con insistenza di vedere, su Netflix, Squid Game. Secondo lui a scuola ne parlano tutti facendolo sentire piccolo e solo. Non so come comportarmi perché non abbiamo mai installato quella connessione e perché mio cugino, che studia psicologia, mi ha detto che si tratta di uno spettacolo molto violento non adatto ai bambini. Mi ha colpito in proposito un’intervista che il telegiornale ha fatto a una mamma che, per evitare che il figlio si senta frustrato, gli concede di guardare Squid Game a condizione che vi sia lei accanto. Anche a me non fa piacere sapere che Marcello si sente escluso da un’esperienza che i suoi compagni condividono e vorrei il suo consiglio su come comportarmi. La ringrazio tanto. / Linda
Cara Linda,
anzitutto due parole sui termini «tutti e nessuno, sempre e mai» con cui i ragazzini sostengono le loro richieste, li consideri, con un sorriso, semplici stratagemmi retorici. Trovarsi in minoranza è difficile ma aiuta a elaborare un pensiero indipendente. La voglia di conoscere è sempre una bella cosa ma l’esperienza che intendono affrontare può essere giusta o ingiusta, adeguata o inadeguata, opportuna o meno. Sta agli adulti valutare e decidere assumendosi le loro responsabilità. La mamma che si siede accanto al figlio per condividerne le emozioni va bene in molti casi ma non quando lo spettacolo supera, come Squid Game, le capacità razionali e affettive del bambino. Il video racconta la storia di Gi-Hun, un poverissimo cittadino della Corea del Sud che vive di ignobili espedienti quando un giorno viene avvicinato da un ricco signore che lo convince a partecipare a una serie di giochi infantili, come «un, due, tre, stella», che promettono ricchi premi al vincitore. Gi-Hun si trova così catapultato in un parco giochi dell’orrore dove chi perde viene ucciso in modo brutale mentre il montepremi continua ad aumentare sollecitando l’ingordigia dei concorrenti. Lo scopo del regista è di condannare una società ingiusta e crudele che, provocando estreme discriminazioni economiche e sociali, svela il sadismo che abita in noi. Ma i bambini, che non colgono questo aspetto, rimangono invece affascianti dall’inquietante accostamento tra gioco e violenza. L’età dell’innocenza, connotata di dolcezza e tenerezza, si trova in tal modo contaminata dalle più deplorevoli pulsioni della natura umana. Come avrà già capito, sconsiglio fortemente di sottoporre suo figlio a un’esperienza prematura che non è in grado di valutare ed elaborare. Di fronte a messaggi violenti e crudeli i bambini vengono invasi da emozioni negative che, infiltrandosi nell’inconscio, continuano a turbare la psiche molto dopo che si è spento lo schermo. E i loro giochi, che si svolgono tra realtà e fantasia, rischiano di diventare così turbolenti da diventare pericolosi. Mi è stato fatto notare che anche le favole sono spesso terribili e paurose ma in questo caso scatta un «vaccino» plurisecolare. I bambini comprendono subito che quelle vicende si svolgono in un mondo lontano lontano e che alla fine i buoni avranno la meglio sui cattivi. La narrazione stempera le emozioni e le parole mettono ordine nel caos delle emozioni per cui, in questo senso, un racconto e un libro sono meglio di un video. Le mie preoccupazioni cambiano con gli adolescenti che qualche volta, senza che diventi una dipendenza, hanno bisogno di affrontare esperienze perturbanti per valutare le loro capacità di reazione e attivare modalità di adattamento e riequilibrio. Per non lasciarli soli sarebbe bene che gli insegnanti aprissero un dibattito in classe facendosi raccontare dai ragazzi che cosa accade oltre lo schermo e quali emozioni suscitano scene che evocano un mondo assolutamente negativo, ove non vi è posto per la fiducia e la speranza, le virtù necessarie per crescere.