Spostare i confini della vicinanza

/ 11.04.2022
di Lina Bertola

La grande disponibilità all’accoglienza dei profughi ucraini e le molteplici forme di solidarietà cui stiamo assistendo, in mezzo alla tragedia disumana, risuonano oggi come un potente sussulto della nostra umanità. Le tante manifestazioni di partecipazione e di condivisione sono un segno luminoso del bisogno di prendersi cura della vita, del desiderio di prestarle amorevole attenzione; un desiderio che questa guerra così vicina offende e soffoca, giorno dopo giorno, come peraltro accade in tutte le guerre, anche lontane.

Il sentimento del legame, spesso infragilito nelle nostre attuali forme di convivenza, e la percezione di una comune appartenenza all’umanità, riemergono oggi nel calore e nella gratuità di tanti gesti spontanei. Nel bel mezzo della tragedia, tutto ciò ci permette di sperare ancora nella forza dell’etica. Penso qui all’etica nella sua versione più radicale, quella nutrita dal sentimento del valore intrinseco alla vita, quella che abita la coscienza del mio esistere, per dirla con Kant, nell’incontro emozionante con il cielo stellato sopra di me.

Questa espressione originaria dell’etica riguarda il valore in cui si fondano, o dovrebbero fondarsi, i valori, riconosciuti e condivisi in un’epoca o in una cultura. A volte però il valore può trovarsi a confliggere con i valori, come spesso la storia ci ha mostrato e come sembra stia accadendo anche oggi. Ad esempio, mentre il valore intrinseco alla vita accoglie le reciproche fragilità e vulnerabilità come nutrimento di ogni legame, i valori della nostra cultura continuano a interpretare fragilità e vulnerabilità come un ostacolo, come un limite all’affermazione di sé, e ciò in un’atmosfera competitiva che può spianare la strada a ogni forma di conflittualità.

In momenti come questo, è bello allora riconoscere la forza dell’etica che abita in ciascuno di noi e che ci fa sperare nella sua capacità di resistere anche alle derive del nostro tempo. È bello pensare che questa spinta ideale all’accoglienza e alla condivisione, che attraversa i nostri giorni, possa riverberarsi anche su altre esperienze di incontro con l’altro. Perché diverse terribili sofferenze da tempo interpellano le nostre coscienze.

Questo gran sussulto dell’etica mi porta infatti a pensare ad altre situazioni in cui questo supplemento d’anima non ha saputo, e ancora oggi non sa esprimersi con la stessa forza. Mi riferisco, ad esempio, agli atteggiamenti meno partecipi, meno attenti alle innumerevoli tragedie del mare, meno attenti al destino di tanti profughi venuti da quel mare lontano che chiedono, anche loro, riconoscimento e accoglienza. Così, questo straordinario slancio ideale verso i profughi ucraini non posso evitare di metterlo allo specchio dell’indifferenza di molti di noi di fronte a dolorose chiusure verso altri disperati.

So bene che sul tema vengono avanzati necessari e più che legittimi distinguo politici e giuridici. Ma è sulla nostra personale percezione dell’altro, su quel valore che precede i valori che desidero portare l’attenzione. Proprio su queste pagine sottolineavo tempo fa come la vicinanza e la lontananza siano un criterio interessante per comprendere il nostro agire morale e le sue inquietanti contraddizioni.

I barconi di tanti naufraghi disperati, presenti sui megaschermi nei nostri salotti, continuano ad essere percepiti come lontani, lontani dal nostro mondo interiore. Ci vengono incontro, entrano direttamente nelle nostre case, ma la sofferenza dei loro sguardi sembra non riuscire a interpellare i nostri cuori come le lacrime di donne e bambini che, come loro, scappano dall’inferno. È la distanza affettiva che ci separa, quella distanza da cui troppo spesso nasce l’indifferenza. Detto con una parola in cui i filosofi hanno spesso riconosciuto il legame tra gli uomini, facciamo più fatica a provare compassione.

Aristotele chiama compassione «il dolore causato dalla vista di qualche male, distruttivo o penoso che colpisce uno che non lo merita», e Spinoza, nella sua Etica, aggiunge: «non solo proviamo commiserazione per una cosa che abbiamo amato, ma anche per quella per la quale prima non abbiamo provato nessun affetto, purché la giudichiamo simile a noi». I nostri simili, appunto: la vicinanza affettiva nasce da questo riconoscimento.

Concludo con una domanda che è anche una speranza. La compassione ritrovata nell’accoglienza di chi oggi fugge dalle tragedie della guerra in Ucraina riuscirà a spostare i confini della vicinanza? A stretto contatto con un dolore inaudito, impareremo a riconoscere meglio anche altre sofferenze? Ad accoglierle in nuovi spazi affettivi?