Sos: lettori cercansi

/ 11.02.2019
di Luciana Caglio

L’allarme, questa volta, si giustifica. Ma, sia chiaro, non ha niente da spartire con l’allarmismo, suscitato dai fantasmi di catastrofi climatiche, crolli finanziari e pandemie globali, insomma cause grandi e lontane, che mobilitano le piazze. Invece, qui, si sta parlando di un fenomeno, più prosaico ma statisticamente accertato, che ci concerne da vicino: ed è la crisi dei giornali, in particolare dei quotidiani su carta stampata, alle prese con un’inarrestabile perdita di lettori, cioè della loro stessa ragion d’essere. La minaccia non ha risparmiato neppure la Svizzera che, con Svezia, Norvegia e Gran Bretagna, si classificava virtuosamente ai primi posti, sul piano mondiale, per numero di giornali e pubblico di lettori. La tendenza è ormai irreversibile e, del resto, ne siamo tutti direttamente responsabili, divisi fra rimpianto del passato e assuefazione al nuovo. Il che ha, magari, significato disdire l’abbonamento al quotidiano locale o rinunciare all’acquisto in edicola di una testata, cosiddetta autorevole, tipo «Corriere della Sera», «Le Monde» o NZZ. Del resto, sembra una decisione logica, perché tanto le notizie di cronaca le trovi anche sul telefonino, e, per saperne di più, basta cliccare Internet o guardare un dibattito in Tv. E non mancano neppure motivazioni d’ordine economico, i giornali costano, o ambientalista, i giornali sono uno spreco di carta, e addirittura d’ordine etico e politico, i giornali asserviti al potere ci nascondono le verità vere.

Ora, in Ticino, questo cambiamento di abitudini e mentalità ha avuto effetti più vistosi e profondi che altrove. La scomparsa, in sé ragionevole, di tanti, troppi giornali, sei quotidiani ridotti a due, ha però spazzato via una prerogativa regionale, un’anomalia, invidiata dagli osservatori d’oltre frontiera. Fra cui, devo citare Gillo Dorfles, Edgar Morin e, in particolare, Indro Montanelli: che apprezzava l’atmosfera silenziosa dei bar svizzeri, con gli avventori intenti nella lettura dei quotidiani «appesi a una stanga di legno». Un rito che, bando al pessimismo, non è completamente scomparso. Rivive, ogni mattino, durante la pausa caffè, concessa da aziende pubbliche e private, e dedicata appunto alla lettura dei quotidiani, non solo i fogli gratuiti, piccoli e sbrigativi, ma ancora quelli storici e impegnativi, appesi alla stanga di montanelliana memoria.

D’altronde, anche fra gli addetti ai lavori non ci si dà per vinti. Un paio di settimane fa, il nostro tg presentava l’iniziativa di un gruppo di giovani giornalisti che avevano, per così dire, trasferito la redazione in un bar di Losanna: «Per essere vicini alla gente comune, per raccontarne le storie, farne i protagonisti della nostra realtà». La ricetta, francamente, mi è parsa tutt’altro che originale, anzi insidiosa e controproducente. Se la parola non fosse inflazionata, la definirei populista, insomma sull’onda di pregiudizi più che mai attuali, nei confronti delle presunte caste, fra cui figura nientemeno che quella giornalistica. In pratica, proprio nell’ambito mediatico, in particolare nella stampa, si assiste all’apertura, sempre più ampia, nei confronti del cosiddetto grande pubblico, ritenuto il detentore di una spontanea saggezza: la sana voce del popolo, a sua volta sano, per intenderci. Per motivi economici, mentre calano pubblicità e abbonati, le redazioni dei nostri quotidiani offrono una generosa ospitalità alle lettere dei lettori, così si chiamavano un tempo, e che adesso che sono diventati articoli, articolesse, come si dice in gergo, e hanno non da ultimo, il vantaggio di essere gratuiti. Inoltre, a questa forma di volontariato esterno spetta, non di rado, il compito di esprimere opinioni magari scomode, esonerando i redattori da interventi compromettenti. Tanto che con il passare del tempo questi autori non professionisti sono diventati un punto di riferimento, creando una forma di familiarità con i lettori: che, a seconda dei casi, evitano, a priori, di leggerli o, invece, vanno a cercarli, e ne condividono umori e soprattutto malumori.

Infine, questa marea di testi porta a galla un desiderio di scrivere, oggi appagabile, e che ha senza dubbio effetti terapeutici, ma anche inquietanti. Uno che se ne intendeva, Giovanni Arpino, definiva lo scrivere «qualcosa che ha a che fare col peccato originale». La conseguenza sembra, infatti, un po’ diabolica, e paradossale: oggi ci sono più scrittori che lettori.