Per me mangiare e bere è l’ultimo pensiero al mondo. Vivrei d’aria. Mi siedo a tavola solo per senso del dovere. Sono disposto a saltare un pasto, una volta per ogni decennio, ma devo essere io a deciderlo, non gli addetti al traffico aereo. Mi spiego: facciamo il caso che io organizzi il mio rientro serale da Roma a Torino in modo da arrivare a casa a un’ora accettabile per cenare. Arrivo a Fiumicino in tempo per scoprire che non c’è traccia dell’aeromobile del mio volo, sostituito da un altro che non si sa quando partirà. Alla fine il ritardo sarà di oltre tre ore. A saperlo avrei avuto tutto il tempo di sedermi a un pranzo di nozze per chiudere con il limoncello fatto in casa.
Questo fatto che se mi avessero comunicato subito l’entità del ritardo avrei potuto mangiare un pasto completo, non so a voi ma a me mette addosso una fame da ultimi giorni dell’umanità. Sbarcato all’aeroporto, recuperata l’auto e rientrato in città, mi trovo vicino a casa che è trascorsa da poco la mezzanotte. I familiari dormono, di mettersi a spadellare non se ne parla. Rassegniamoci, siamo persone adulte, ragionevoli, il digiuno non può che farci bene. C’era uno scienziato russo che faceva digiunare le galline vecchie e loro riprendevano a fare le uova. Io, però, anche se digiunassi per un intero anno, non riuscirei a fare le uova. Forse Marco Pannella ci riusciva, chissà.
Mi torna in mente un saggio, scritto da uno scienziato che o aveva vinto il premio Nobel o stavano per darglielo. Costui dimostrava che è letale digiunare dopo aver a lungo fantasticato su un’abbuffata, perché i suddetti organi nel frattempo hanno secreto potenti succhi gastrici, che lavorano come martelli pneumatici e perforano tutto quello che hanno davanti. Perciò mi fermo davanti all’insegna ancora accesa di una birreria ed entro. Ignoro se le persone al suo interno, l’addetto al bancone, una giovane cameriera, il ragazzo che mi accompagna al tavolo, due coppie e un solitario bevitore di birra, stessero parlando. Sta di fatto che al mio ingresso tutti tacciono. Tranne il ragazzo, vestito di nero e con le scarpe da ginnastica. «Faccio in tempo a mangiare qualcosa?», domando. «Sono rimasti spaghetti alla carbonara e costata di manzo con patate». «Vada per spaghetti e costata».
Nel silenzio totale, si percepisce lo schiumare della birra spillata dal fusto. Il ragazzo con le scarpe da ginnastica torna al mio tavolo reggendo un vassoio con un bicchiere ripieno fino all’orlo di un liquido denso, lattiginoso, nel colore ricorda il latte di mandorla. Lo posa sul mio tavolo: «L’aperitivo della casa», mi spiega in risposta al mio sguardo interrogativo. Tutti fissi a guardarmi, compreso il titolare. Sollevo il bicchiere, abbozzo un gesto circolare rivolto al mio pubblico e ne trangugio lentamente il contenuto. È gradevole, piuttosto alcolico, con un lontano sentore di anice.
Ed ecco che mentre il liquido inizia a scendere nel gorgozzule percepisco nitidamente la cameriera lontana, in piedi, le braccia conserte, appoggiata allo stipite della porta, affermare in tono aspro: «Se non arrivavi tu adesso, chiudevamo». Sto per chiederle «Scusi, cosa ha detto?» quando mi rendo conto che non ha aperto bocca. Ho percepito il suo pensiero! Sarà l’effetto dell’aperitivo della casa: siamo tutti sottotitolati. Mi portano gli spaghetti. Una montagna. «Non sono troppi?» domando al ragazzo. Risponde: «Le porzioni abbondanti sono una specialità della casa». E pensa: «Bisognava finirli. Domani sarebbero stati da buttare. Voglio proprio vedere come farai a mangiarli tutti». «Si può almeno fermare la costata?», domando. «No», mi risponde. «È già in cottura». E pensa: «L’hai ordinata? Adesso la mangi o almeno la paghi!» Mi verrebbe da augurargli qualcosa di brutto, mi ferma il pensiero che se gli altri hanno bevuto l’aperitivo della casa possono leggere il mio pensiero.
Mentre inizio a demolire la tonnellata di spaghetti, impegno il cervello a calcolare la radice quadrata di numeri primari di sei cifre e a risolvere sistemi di due equazioni con due incognite. Dopo un po’ hanno tutti la fronte tramata di rughe, l’occhio perso nel vuoto, la bocca semi aperta nel vano tentativo di starmi dietro. Per la cronaca, ho spazzolato tutto. Appartengo al partito di quelli che «è un delitto lasciare qualcosa nel piatto». La prossima volta che faccio tardi digiuno. Promesso. A costo di mettermi a fare le uova.