Sopravvivere a sé

/ 22.03.2021
di Ermanno Cavazzoni

Quali sono le ricette per vivere anche dopo che si è morti? L’Islam e il Cristianesimo hanno fatto fortuna promettendo un aldilà stabile e duraturo; l’Islam in un giardino tra 72 ragazze a disposizione; il Cristianesimo in un cielo di nubi abbastanza solide da sostenere le persone dedite principalmente al canto corale e all’ammirazione della divinità. Non è entusiasmante ma è meglio del nulla. È il nulla che fa paura. Nell’antichità (ad es. in Platone) e in certe religioni orientali come il buddismo, un individuo rinasce un certo numero di volte in un altro individuo, oppure in un animale o in una pianta.

Questa è una promessa più ragionevole e anche più a sorpresa, più avventurosa, quella di tornare in qualche modo nella vita; anche se solo uno ha la prospettiva di diventare un geranio in vaso, o un oleandro, o meglio ancora una ginestra su una riva scoscesa di fronte al Mediterraneo, beh, non ci saranno grandi avvenimenti o grandi viaggi, ma si può stare lì contenti del sole e della pioggia, senza grandi responsabilità, in attesa di un’ape che ti porta il polline e ti feconda; che poi l’ape sarà stata a sua volta qualcuno, il più delle volte un tipo individualista e di destra che per la legge del contrappasso entra in una società comunista come è quella delle api. 

Tornare a vivere tra tutte le prospettive è la più confortante, anche se purtroppo non se ne ha la coscienza, se non a tratti, dei lampi di coscienza di aver già vissuto, anche solo un odore, un tipo di luce, una situazione. È poco, è vero, ma magari ho la prospettiva di diventare il cane di chi nella vita precedente ho amato, o di essere la sua piantina prediletta di rosmarino. Meglio che sulle nuvole a fare il corista, o nel giardino a instupidirmi in un coito seriale.

Tuttavia anche la rinascita non dà molta soddisfazione, nel caso dovessi rinascere disgraziato, o semplicemente antipatico, come una mia zia che ho sempre evitato, dovessi diventare mia zia, perfido e malefico com’era lei. È morta da un po’ di anni, quindi il posto è vuoto, preferirei diventare un verme o una zecca, piuttosto che quella mia zia; la quale nel frattempo chissà cosa è diventata, spero un pollo d’allevamento, che è peggio dell’inferno, e se lo merita, pigiata in una stia, con altre zie perfide uguali, a beccarsi e spennarsi a vicenda, tirate su a ormoni, ogni tanto avranno lampi di memoria di quand’erano zie nel consorzio umano e, pur con la mente del pollo, capiranno il male e le perfidie che hanno fatto.

C’è anche chi ha pensato alla fama come forma di sopravvivenza. Uno muore ma resta la fama, ed è un po’ come se non morisse. La forma più tangibile è una statua, un busto. Ad esempio sei stato un condottiero, sei stato Bartolomeo Colleoni e ti hanno fatto la statua, a Venezia. Sì, un briciolo di soddisfazione c’è, peccato che il Colleoni non se la possa godere, a godere casomai sono i turisti che la fotografano. La gloria, la fama in realtà è aria fritta, è come il nome dato a una via, se la via è lunga significa che la fama è maggiore, se è un vicoletto è perfino un’umiliazione. La fama è disposta gerarchicamente, già è una cosa spiacevole anche in vita questa graduatoria tra gli esseri umani; pensare che continui anche dopo è deprimente. E poi la maggioranza non ha fama, se non la minima fama in famiglia, supportata dall’album di fotografie, che ingialliscono, sbiadiscono, vanno perse, e anche quel po’ di memoria va persa con loro.

Ci sono altre forme di sopravvivenza? Forse l’unica appena un po’ veritiera è un libro scritto, meglio di tutto una raccolta poetica o un romanzo. Nelle parole scritte l’autore riversa la propria anima, che si riattiva ed entra in colloquio con chi legge. Un libro continua ad essere una persona che parla e racconta, la sua mente si salva, anche se il corpo se n’è già andato. Forse. E dico che forse questo riguarda tutte quelle opere in cui un autore ci mette l’anima; forse più in generale sono le opere d’arte che fanno restare in vita, anche se una forma di vita diversa.

Ho sempre pensato che la libreria che ho in casa sia una riserva di anime vive, che posso prendere, fare sedere con me sul divano, comodi, in intimità, e parlarci. Anche per lui dev’essere una soddisfazione, continuare a discorrere e a passarmi i suoi sentimenti. La libreria è un piccolo aldilà, anzi un piccolo limbo che ospito.

Quindi, riassumendo, l’aldilà in cui si sopravvive è sparso in tante case, con accumuli densi di anime nelle biblioteche, ma anche nelle collezioni d’arte e nelle architetture delle città.

Perciò non si disperi, con i defunti continuiamo a viverci. E i defunti che non hanno lasciato opere d’arte? Beh, questi continuano ad aggirarsi per un po’ nei dintorni, tante cose continuano a parlare per loro, perché l’anima impregna gli oggetti e fa fatica ad evaporare. Poi anche gli oggetti arrugginiscono, o finiscono venduti a un antiquario e non parlano più.

Il defunto anche lui si allontana, non ha più agganci, svanisce. Ma il fatto che per un po’ perduri, e che nei libri alcuni durino secoli, qualcuno millenni, è solo ed esclusivamente dell’uomo. A quanto io sappia le formiche, anche le più civilizzate, non hanno un simile soggiorno nell’aldilà, e d’altronde non leggono, non dipingono. A meno che, come qualcuno ha detto, un formicaio non sia un animale unico, nel qual caso vive in eterno, salvo incidenti. Chissà che anche noi non siamo un solo animale, il cui legame cellulare sono le parole, e che vive come un muschio speciale alla superficie di questo pianeta.