Per lo sprezzo dei diritti umani che esibiscono, non provo alcuna simpatia nei confronti dei regimi dell’Arabia Saudita e dell’Iran. Ammiro le raffinatezze della loro cultura e provo soggezione per questi Paesi che rappresentano le terre-faro delle rispettive tradizioni musulmane: l’Arabia per i sunniti e l’Iran per gli sciiti. In determinati momenti della storia hanno espresso autentiche vette di civiltà, ma oggi sono impresentabili. Da giornalista non posso, per esempio, perdonare al principe saudita Mohammed bin Salman di essere stato il probabilissimo mandante della cattura e poi dell’autentica macellazione del collega dissidente Jamal Khashoggi nel 2018. Ovviamente, trovo meschino che buona parte dell’Occidente faccia affari con un simile individuo.
Dell’Iran che appende alle gru chi protesta in piazza non posso dire meglio. L’ultimo «banale» episodio delle ragazze costrette a pubblica ammenda perché hanno osato danzare a capo scoperto il giorno della festa delle donne andrebbe annoverato tra i punti simbolicamente più bassi di questa straordinaria civiltà.
Eppure, nei giorni scorsi, qualcosa di buono l’Arabia Saudita e l’Iran l’hanno fatto: sotto l’egida di Pechino hanno annunciato che riallacceranno le reazioni diplomatiche, interrotte sette anni fa dopo che i manifestanti nella Repubblica islamica hanno preso d’assalto le missioni diplomatiche saudite in seguito all’esecuzione a Ryad di un famoso religioso sciita. Le ruggini sono più antiche. Dalla creazione della Repubblica islamica dell’Iran nel 1979, i Paesi sunniti accusano Teheran di voler «esportare» la propria rivoluzione. Da allora, tra Ryad e Teheran è in corso una violentissima partita a scacchi, dove lo scacchiere è l’intero Medio Oriente. In Siria, per esempio, l’Iran sostiene il presidente Bashar al-Assad e l’Arabia Saudita i ribelli. Nello Yemen, invece, Ryad ha formato nel 2015 una coalizione araba sunnita a favore del presidente yemenita e Teheran aiuta i ribelli sciiti Houthi.
Non sappiamo se e quando avverrà il riavvicinamento tra le due potenze e non riusciamo ad immaginare quanto sia sincero. Mohammed bin Salman aveva descritto il leader supremo iraniano come il «nuovo Hitler». E tanto basti per capire una logica che da qui spesso sfugge: all’interno del mondo musulmano il peggior nemico è spesso il musulmano dell’altra corrente. Solo in seconda battuta è l’Occidente.
Ciò detto e incrociando le dita, la ripresa del dialogo tra i due acerrimi rivali è una buona notizia. Forse è ingenuo immaginare una pacificazione del Medio Oriente. A noi basterebbe anche «solo» l’inizio della fine della guerra nello Yemen. È infatti poco probabile, come osservava il «Guardian», che Ryad abbia concluso un accordo con l’Iran senza costringerlo a cessare la fornitura di armi agli Houthi. E un paio di settimane fa il ministro degli Esteri saudita aveva giurato che la massima priorità del suo Paese era «trovare un modo per ottenere un cessate il fuoco permanente nello Yemen». Volesse il cielo.
Quella dello Yemen è una gigantesca tragedia negletta. Nel Paese muoiono da uno a due civili all’ora. La guerra civile, iniziata nel 2014, ha causato centinaia di migliaia di vittime, e la sopravvivenza dell’80% degli yemeniti, pari a 20 milioni di persone, dipende in toto dagli aiuti umanitari.
Se questa mattanza finisse, gli unici a rimetterci sarebbero i produttori di armi in Francia, negli USA, ma anche in Svizzera (l’anno scorso un’inchiesta della RTS ha rivelato che i fucili elvetici Sig Sauer 551 erano finiti – per vie misteriose – nelle mani dei soldati sauditi attivi nello Yemen). Ma siamo quasi sicuri che, con i tempi malmostosi e violenti che corrono, una tragedia in meno nel pianeta non manderebbe in crisi i loro bilanci.