Sono parole di papa Francesco, pronunciate con grande intensità nello splendido film-documentario di Wim Wenders trasmesso dalla nostra televisione in occasione dei dieci anni del suo pontificato. Già nell’intervista che lo ha preceduto, il Santo Padre ha offerto il suo sguardo sul senso della vita e sui problemi del mondo, sulle immani sofferenze dei poveri, degli scartati, dei dimenticati, dei bambini deprivati di pane e conoscenza. Ma anche sulle sofferenze della terra, la sora nostra matre terra, lodata dal suo santo ispiratore, diventata ormai la creatura più povera, il simbolo cosmico della povertà che infliggiamo al mondo.
Non quella povertà che è il valore cristiano di purezza del cuore, mitezza e misericordia e che si contrappone all’ingordigia della ricchezza («il diavolo è nelle tasche» ha esclamato nell’intervista) ma, al contrario, quella povertà inflitta a molti esseri umani oppressi, sfruttati, diseredati e condannati all’esclusione da coloro che hanno fatto di consumi e ricchezza il proprio dio. Di questa dolorosa condizione che affligge il nostro mondo, ha detto il Papa, siamo tutti responsabili: nessuno può dire «io non c’entro».
Le parole di papa Francesco non lasciano indifferenti. Ci interpellano in prima persona, ci invitano a metterci allo specchio della nostra coscienza del vivere, ci interrogano sul senso del nostro stare al mondo. Davanti a questo richiamo etico mi rendo conto che il sentimento di impotenza, che quasi sempre ci invade di fronte alla potenza dei potenti, non è più sufficiente. Non basta più.
Non basta più riflettere sul sentimento di responsabilità con cui scegliamo di agire bene nel nostro piccolo mondo, coltivando con cura il nostro personale giardino dell’etica. Rispetto dell’ambiente, raccolta differenziata, acquisiti a chilometro zero; correttezza nei rapporti privati e professionali; attenzione e disponibilità ad aiutare coloro che ne hanno bisogno: tutto questo agire bene, questo adempiere alle nostre responsabilità, non ci sottrae alla provocazione di Papa Bergoglio.
Il suo monito squaderna davanti a tutti noi l’orizzonte più ampio del Creato e la presenza dell’umanità intera, chiedendoci di capire più in profondità il senso e il valore del vivere e del convivere. Anche per chi non si riconoscesse nella fede che nutre le parole del Pontefice, quel «siamo tutti responsabili» non può non risuonare come apparizione inattesa di un’eccedenza dell’umano, come il mostrarsi imprevisto di un supplemento di umanità, di una trascendenza, di un altrove che abita la nostra vita e ci invita ad una percezione più piena della nostra umanità. A noi, uomini delle risposte da esibire sulla superficie del tempo, queste parole suggeriscono il tempo delle domande in cui la vita si rivolge verso sé stessa. È un invito a continuare ad interrogarsi per cercare di capire il significato ulteriore di responsabilità, di una responsabilità direi metafisica.
Per cercare di illuminare questo orizzonte di senso ho pensato a Emmanuel Lévinas, il grande filosofo lituano di origine ebraica, vissuto nel Novecento. La sua visione della responsabilità è un’interessante chiave d’accesso alla comprensione del messaggio che papa Francesco ha voluto ribadire con forza anche in questa sua recente apparizione. Per Lévinas la responsabilità è il valore che sta alle radici della esistenza, il fondamento etico della condizione umana. Il che significa una cosa molto importante, ovvero che la nostra identità, l’essere di ogni persona, si costituisce nella relazione con l’altro.
L’apparire del volto dell’altro è un’esperienza costitutiva, originaria e inaugurale nell’esistenza di ciascuno di noi. Il volto non è semplicemente il viso, non è la fisionomia di chi mi sta fisicamente di fronte, ma è l’espressione di ogni presenza possibile, il suo manifestarsi che mi interpella o potrebbe interpellarmi, anche con la sua sofferenza e con le sue fragilità. Da questo incontro con la presenza del suo volto nasce la mia responsabilità verso di lui. La responsabilità, insomma, è la radice del senso del vivere e del convivere, fa della vita un’esperienza etica in cui il destino di ognuno è segnato dalla presa su di sé del destino dell’altro.
«Se non rispondo di me chi risponderà per me? Se rispondo solo per me sono ancora io?». Nell’accogliere queste domande di Lévinas sta forse il primo gesto di responsabilità: imparare a convivere con la loro ineludibile presenza.