Siamo tutti migranti

/ 15.02.2021
di Orazio Martinetti

La «questione degli stranieri», nelle sue varie implicazioni e manifestazioni, occupa l’agenda politica elvetica fin dall’Ottocento. La gestione dell’immigrazione ha dato luogo a reazioni che hanno sempre travalicato il contesto produttivo, per allargarsi alla sfera legislativa, sociale, culturale. Per questo Max Frisch non amava l’espressione «Gastarbeiter». Non erano ospiti, serviti e riveriti, gli immigrati italiani, spagnoli e portoghesi che affluivano nel Paese, bensì «Fremdarbeiter», lavoratori stranieri assoldati nelle industrie e nei cantieri, negli ospedali e nel settore alberghiero. Una presenza gerarchizzata dalla scala degli statuti giuridici rilasciati dalle autorità in base alle esigenze dell’economia e dei cantoni.

Quindi un regime che aveva al suo apice il permesso di domicilio (il più ambìto, sebbene presupponesse un soggiorno regolare e ininterrotto di almeno dieci anni), seguito dal permesso di dimora (annuale), dal permesso stagionale e dal permesso frontaliero. Era questo un congegno ben oliato, la cui segmentazione rendeva la vita difficile ai sindacati, alle prese con richieste divergenti e che spesso mettevano gli uni contro gli altri autoctoni e stranieri. Accadeva che le parole d’ordine inneggianti alla solidarietà urlate durante il primo maggio finissero poi, nella quotidianità di fabbrica, per farsi inghiottire da risentimenti xenofobi.

La gerarchia dei permessi ha cambiato volto con l’adesione agli Accordi bilaterali 1, rendendo più fluida la libera circolazione delle persone e di conseguenza della manodopera. Questo cammino è stato tuttavia aspramente contrastato, soprattutto in occasione della prima votazione sull’«immigrazione di massa». Il 9 febbraio 2014, come si ricorderà, l’iniziativa spaccò in due il Paese, obbligando il parlamento a ricercare un possibile punto di equilibrio, mai del tutto raggiunto, tra le rivendicazioni dell’UDC e le ragioni dell’economia. Solo l’anno scorso, con la seconda consultazione (27 settembre), è stato possibile svincolarsi da questa camicia di forza.

Si è detto che l’immigrazione è un fenomeno complesso, le cui ramificazioni – scavalcando il perimetro lavorativo – investono l’intera società, le sue istituzioni scolastiche, il sistema previdenziale, la politica degli alloggi, l’associazionismo, l’organizzazione del tempo libero. Anche la «figura» dello straniero è cambiata negli ultimi anni, osservano gli autori di un volume appena uscito nelle edizioni Dadò curato da Rosita Fibbi e Philippe Wanner («Gli italiani nelle migrazioni in Svizzera»). Le migrazioni non sono più unicamente unidirezionali, un flusso che in passato aveva origine nelle regioni arretrate della fascia mediterranea per poi dirigersi verso i centri industriali del Nord Europa: l’area di Zurigo, il bacino tedesco della Ruhr, le miniere del Belgio.

I movimenti sono oggi molto più intricati, sia in entrata che in uscita, e non riguardano più soltanto i meno qualificati, le «braccia», tant’è vero che in sociologia la nozione di «straniero» è stata sostituita da quella di «migrante». L’esercito dei migranti è infatti sempre più folto, mobile e diversificato: è formato da coloro che, stanchi di vivacchiare nella precarietà e nell’assenza di prospettive, decidono sia meglio cercar fortuna altrove. Molti di questi appartengono ancora alla forza-lavoro tradizionale, scarsamente scolarizzata, ma negli ultimi tempi sono sempre più numerosi i cosiddetti «expat», neolaureati alla ricerca di sbocchi professionali finalmente appaganti. Sono ragazzi e ragazzi reclutati dai politecnici, dagli atenei, dagli istituti più prestigiosi attivi nel campo delle tecnologie di punta (informatica, ingegneria), della chimica e della medicina. Questi «nuovi italiani» portano con sé un bagaglio ben diverso da quello che i loro avi infilavano nelle valigie chiuse con cinghie e spago. Anche la lingua rappresenta sempre meno un ostacolo, data l’onnipresenza dell’inglese nel ruolo di esperanto nell’insegnamento e nella ricerca.

Siamo dunque in presenza di una mobilità diffusa e continua, che non riguarda solo il Meridione d’Italia, da secoli serbatoio di forza-lavoro da esportazione. Anche il Ticino vede all’opera un movimento simile, seppur numericamente limitato e sulle prime poco appariscente. Sono i giovani che attratti da salari più elevati e da migliori opportunità di carriera decidono di stabilirsi oltralpe una volta conclusi gli studi. Anche questa è «migrazione», micro-capitolo interno della grande storia degli esodi; addii che comunque costringono – per citare il sommo poeta – «a provare come sa di sale lo pane altrui». Anche nell’epoca dei treni superveloci e delle videochiamate.