Cara signora,
la leggo da poco e non avrei mi pensato di scriverle, invece eccomi qui.
Sono venuta a lavorare in Ticino due mesi fa, da Vicenza dove abitavo, e la mia pronuncia è così diversa da quella dei colleghi che mi capita di vergognarmi della mia voce. Ma anche di tante altre cose. Domenica mattina, per esempio, stavo facendo jogging lungo il lago quando un collega, che ancora non conosco bene, mi ha invitata ad andare, nel pomeriggio, al cinema con lui. E io gli ho risposto: «va bene, piuttosto che stare in casa!». Mentre pronunciavo questa frase mi sono resa conto che diceva il contrario di quello che avrei voluto dire. Il mio intento era di sottolineare il valore dell’opportunità che mi offriva ma lui avrà pensato che la consideravo solo un rimedio. Più tardi, alla fine dello spettacolo, gli porgo la mano e lo accomiato con un secco «a domani», ma subito mi viene in mente che dovevamo ancora andare insieme alla macchina.
Un’altra volta, domando all’architetta che mi aiuta ad arredare l’appartamento: «è suo padre?» E lei: «no, è mio marito».
Insomma, come avrà capito, sono un’imbranata. E lo sono sempre stata, soprattutto alle medie. Durante le interrogazioni mi sudavano le mani, balbettavo, rispondevo troppo presto o troppo tardi. E mi sentivo mortificata. Quanto darei per diventare sicura e adeguata come le colleghe! Ma non so cosa fare. Mi può aiutare? / Melany
Cara Melany,
credo che tu sia in grado di aiutarti da sola. Tutti siamo più o meno imbranati perché «è imbarazzante essere umani». Chi non si è mai sentito a disagio? Chi in certi momenti non avrebbe voluto scomparire? Addirittura morire, come esprime il termine «mortificata».
Sono lampi di forzata autoconsapevolezza, durante i quali guardiamo a noi senza indulgenza, in modo spietato. Ed è questo atteggiamento che dobbiamo cambiare, senza pretendere di essere perfetti. La perfezione è sempre impossibile e, se viene perseguita a tutti i costi, può diventare persecutoria e aggravare la nostra insicurezza. La prima mossa è ammettere la propria fragilità, volersi bene e accettare con un sorriso di essere quello che si è. I film comici di Paolo Villaggio ci invitano, esasperando le situazioni, a ridere dell’imbarazzo in cui viene a trovarsi il protagonista, del tutto ignaro delle conseguenze che possono provocare i suoi impulsivi comportamenti.
Il suo disagio, cara Melany, probabilmente la rende simpatica agli altri perché fa sì che, di riflesso, accettino il proprio e, identificandosi con lei, riconoscano come inevitabile, in certi momenti, sentirsi delusi e umiliati.
Erving Goffman, nel suo libro più noto, La vita quotidiana come rappresentazione, propone una teoria della vita sociale che può aiutarla.
Se, come dice Shakespeare, la vita è teatro, recitiamo tutti su un palcoscenico, dinanzi a spettatori che ci guardano, ci valutano e ci giudicano. Come ogni attore, anche noi vorremmo essere apprezzati dal pubblico, corrispondere alle aspettative, ma è inevitabile che sopravvengano piccole dimenticanze, lapsus e inesattezze che ci fanno, non solo temere l’insuccesso, ma anche vergognarci di noi. Magari il pubblico non si è accorto di niente o è disposto all’indulgenza, siamo noi i giudici più inesorabili di noi stessi.
In quel momento, la ribalta entra in contrasto con il retroscena, lo spazio dove ci sentiamo al sicuro, dove non abbiamo bisogno di recitare perché non ci proponiamo di piacere. Ma i fischi che ci risuonano nella testa rompono il silenzio obbligandoci a diventare consapevoli della nostra inadeguatezza. Non sono tanto gli altri, quanto il nostro specchio a provocare il disagio che ci attanaglia ogni volta che non ci consideriamo all’altezza dell’Io ideale.
In questi casi non c’è colpa, la gaffe è sempre involontaria, eppure il rimorso non ci abbandona.
La vergogna è più indelebile della colpa e nella nostra memoria permangono, con particolare vivezza, le emozioni suscitate dall’esserci vergognati.
È vero che ci sono persone che si sentono imbarazzate più spesso di altre, ma esistono anche situazioni che fanno sentire in imbarazzo la maggior parte delle persone. In questo senso la stagione della vita in cui ci riveliamo più goffi è proprio, come lei racconta, l’adolescenza, quando i ragazzi si espongono più che mai al riconoscimento della loro debole identità. In ogni caso consiglio a lei, e a tutti quelli che soffrono per sentirsi, più o meno frequentemente, a disagio, goffi o ridicoli, di leggere il bel libro di Melissa Dahl, appena edito da Feltrinelli col titolo Che figura, vi farà sentire più sicuri e meno soli.