Siamo persone

/ 08.07.2019
di Natascha Fioretti

Cari lettori,
vi svegliate mai al mattino e vi chiedete chi siete, dove andate? Mentre vi lavate i denti davanti allo specchio pieno di macchie di dentifricio, spruzzi d’acqua e aloni o mentre state sorseggiando il caffè con i capelli in aria che supplicano di incontrare un pettine al più presto? Vi sentite mai, nel farvi questa domanda, un po’ persi e smarriti? Insicuri, persino? E poi, vi capita di prendere in mano il cellulare, guardare le ultime notifiche, i nuovi messaggi, oppure sedervi al pc a leggere le notizie, gli aggiornamenti su Fb e avere all’improvviso la sensazione che tutto torni a posto? Che avete di nuovo il controllo della situazione? È una bella sensazione, lo so, ma è illusoria. Perché se l’identità in Rete è una cosa semplice, nella vita reale è una questione molto più complessa, soggetta a variazioni, insicurezze, stati di benessere ma sempre in movimento e in evoluzione, specie nei nostri tempi in cui spesso navighiamo a vista e tocca reinventarci più volte e ripensare i nostri ruoli in famiglia, nella società, sul lavoro e così via.

In Rete tutto questo è racchiuso in due semplici parole che penso siano tra le più inflazionate: nome utente e password. Voi, per curiosità, a quale categoria appartenete: siete di quelli che le memorizzano, le cambiano per ogni piattaforma o usano sempre le stesse per non perdere tempo e, soprattutto, non correre il rischio di dimenticarle? Vero è che nell’uso corrente che ne facciamo, abituati ormai a loggarci ovunque con i nostri dati, che sia su una testata online, il sito delle ferrovie o un social network questo passaggio è talmente abituale e scontato che sembra insignificante. E, invece, se ci pensate, è un po’ come una carta d’identità personale, sono i nostri segni di riconoscimento in Rete. Dietro ad ogni utente e password si celano volti, sorrisi, rughe, persone in carne e ossa. Ma per la Rete e chi la abita, la frequenta siamo tutti utenti, users come dicono gli inglesi, persone è caduto in disuso. E, pensandoci, questa cosa mi disturba. Per spiegarvi cosa intendo voglio scomodare l’architetta e designer austriaca Margarete Schütte-Lihotzky il cui lavoro è stato parte di una mostra londinese di design lo scorso anno. Classe 1897, impegnata in un progetto che nel secolo scorso – in un’ottica di un’economia di scala e di spazi piccoli – prevedeva di pensare e disegnare cucine facilmente replicabili in diverse abitazioni, fu esortata dal suo mentore Oskar Strnad ad andare a vedere di persona come vivevano le persone. L’incontro con la povertà delle classi operaie di quel tempo fu per lei molto scioccante ma anche costruttivo perché da lì in avanti decise di fare cucine per le masse. Nel 1926 disegnò la famosa «Frankfurt kitchen» installata in 10’000 nuovi appartamenti a Francoforte. Perché ve lo racconto? Perché Schütte-Lihotzky disegnava per le persone non per gli utenti o i fruitori. La parola utente definisce una persona nella sua relazione con un prodotto o un servizio. In realtà la persona che usa o interagisce con un prodotto è molto altro.

Brava Schütte-Lihotzky che in un’era pre-internet disegnava cucine per donne della classe media che erano mogli, madri, lavoratrici, sorelle e figlie. E non possono starci tutte in una sola parola, una persona non può essere definita soltanto dal suo rapporto con un servizio o un prodotto perché non si limita ad utilizzarlo ma lo investe di significato, lo incorpora nelle sua vita in una miriade di modi che designer e professionisti del web o dell’industria digitale nemmeno immaginano. Dunque torniamo alle buone abitudini e mettiamo le persone al centro. 

Faccio un esempio: sul sito della radio pubblica tedesca Deutschlandfunk c’è un testo che recita «c’è un’intervista che quest’anno ha avuto particolare successo tra i nostri utenti, quella al filosofo Richard David Precht». Perché utenti e non ascoltatori, pubblico, persone? Utente è così asettico e disumanizzante. E non è una banalità perché le parole contano e gli universi che rappresentano pure. In un mondo che corre incontro all’intelligenza artificiale, un mondo robotizzato e meccanico non solo l’empatia, di cui parlavamo la volta scorsa, ma anche le nostre identità individuali e complesse devono rimanere al centro dell’orbita. O – tra macchie di dentifricio, spruzzi e aloni indefiniti – sarà sempre più difficile riconoscerci allo specchio.