Sherry Turkle c’era, era al posto giusto nel momento giusto in quegli anni di grande innovazione e cambiamento, gli anni Settanta, in cui andavano delineandosi quegli strumenti e quella cultura tecnologica che oggi determinano e condizionano sempre di più le nostre vite. In The Empathy Diaries racconta del suo incontro con Xerox Alto, la prima workstation che concettualizzava l’interazione uomo-macchina attraverso un personal computer. Una visione che cambiò la sua vita proprio come accadde a Bill Gates e Steve Jobs.
A proposito del fondatore di Apple, diverte l’aneddoto in cui Sherry racconta del suo tentativo di organizzare una cena per Steve. Nella primavera del 1977 Michael Dertouzos, direttore del Laboratory for Computer Science e pioniere nel campo dell’IT, le chiede di organizzare la serata invitando naturalmente anche un gruppo di selezionati colleghi del MIT. Si raccomanda di scegliere un menu adatto, Steve notoriamente è vegetariano e difficile da accontentare. Sherry si impegna e opta per una cena a base di riso e sushi vegetariano con tanto di pasticcini francesi per dessert. Una serata perfetta. Alle otto nel salotto di casa sua sono riuniti i nomi più famosi delle scienze computazionali dell’epoca intenti a condividere cibi deliziosi e amabili conversazioni. Peccato per il ritardo di Steve che da un lato si concede poco dall’altro alla vista del cibo si limita a dire «questo tipo di vegetariano non va bene» e se ne va.
Non solo Michael Dertouzos e Steve Jobs, i compagni di viaggio della carriera e della vita di Sherry Turkle sono stati anche Seymour Papert e Marvin Minsky. Tra gli esponenti principali del costruzionismo, in particolare per gli apporti forniti alla didattica e alle tecnologie dell’istruzione, Seymour Papert considerava il computer come uno strumento di simulazione e di supporto per l’apprendimento anche dei bambini. Collaboratore di Piaget all’istituto di epistemologia genetica di Ginevra nel 1964 insieme a Marvin Minsky fonda al MIT il Laboratorio di Intelligenza Artificiale. Sherry è sempre stata in disaccordo con Marvin e la sua idea di fondo, così radicata anche nella cultura tecnologica mainstream, per cui è cosa buona e giusta avere dei dispositivi capaci di disabituarci alla dipendenza gli uni dagli altri. Marvin non riteneva necessario portare il fardello derivante dai legami e dalle relazioni umane, promuoveva invece l’idea di un incontro tra l’uomo e la macchina al punto che l’uno diventasse l’altra e viceversa. Ma noi non siamo oggetti, ci dice Sherry Turkle nell’ultimo capitolo del libro, anche se sempre di più ci lasciamo trattare come tali. Ad esempio quando vengono presi e venduti i nostri dati sul mercato internazionale o quando i nostri dispositivi tecnologici manipolano la nostra attenzione, ci tengono incollati ai nostri schermi influenzando le nostre ricerche, le nostre letture, le immagini che vediamo. Diventiamo degli oggetti ogni qual volta interagiamo con testi e voci generati dalle macchine perché per essere compresi possiamo rispondere soltanto in modi che possano comprendere. Un assistente virtuale che ci offre la sua amicizia ci riduce ad una linea di codice.
Intanto i tecnologi, per sfruttare al meglio i programmi, ci invitano a trattarli come se fossero degli umani. Così facendo, ci dice l’antropologa del cyberspazio, eleviamo le macchine e sminuiamo noi stessi. Iniziamo a dire che le relazioni tra le persone e le macchine sono interpersonali e non c’è un senso in questo ma un grande pericolo. Fa l’esempio degli anni Settanta, di quando il suo collega Joseph Weizenbau arrivò nel suo ufficio arrabbiato perché la segretaria e gli studenti preferivano interagire con ELIZA, un programma in grado di fingere una conversazione sul modello della psicoterapia Rogeriana. Era chiaro che ELIZA non potesse comprenderli ma non sembrava importante. Oggi la tecnologia che abbiamo a disposizione ha più fantasia ed è più accattivante ma le nostre vulnerabilità sono le stesse. Cosa fare allora? Interrompiamo l’esperimento. Distanziamoci dalle macchine. Siamo esseri umani fatti di corpo, storie emotive e sociali. Abbiamo bisogno di empatia e di connessione umana e questo non si traduce in un numero maggiore di app a disposizione. Siamo noi le app empatiche e per stare bene abbiamo bisogno gli uni degli altri e la pandemia ce lo sta ricordando. Non ci resta allora, come suggerisce Sherry Turkle, che rimodellare il digitale perché sia al servizio dell’uomo.