Si va di fretta

/ 10.07.2017
di Franco Zambelloni

Quella che oggi viene comunemente chiamata «accelerazione del tempo» è una svolta esistenziale ben nota a molti studiosi che ne hanno fatto oggetto di innumerevoli analisi e di molti altri che hanno scritto elogi della lentezza.

In realtà, non è il tempo che accelera: non il tempo passa, siamo noi che andiamo; e di fatto stiamo andando sempre più di fretta. Questa fretta la rilevo quotidianamente, ad esempio negli e-mails che ricevo e che, con ogni evidenza, sono stati digitati precipitosamente, mentre il tasto send è stato premuto prima che l’occhio avesse il tempo di cogliere gli errori di battitura. E, conseguentemente, le frasi sono monche, telegrafiche, per l’esigenza di guadagnare tempo e inviare subito. E, naturalmente, chi scrive si attende una risposta real time.

Certo, anche i dispacci telegrafici del passato condensavano la comunicazione in frasette scarne, e gli studenti d’un tempo si divertivano a coniare modelli di messaggi come questo: «Cara Mella – morta Della – Manda Rino – T’ama Rindo – Baci Nella». Ma i messaggi telegrafici del passato non erano il modo consueto di comunicare; oggi invece gli e-mails e gli SMS piovono a cascata e si confondono nella massa del rumore che ci circonda e nel vortice della fretta che incalza. Un filosofo italiano, ottimo studioso di logica, ha osservato di recente: «Oggi la noia e il suo vuoto sembrano non esistere più: le orecchie sono invase da musica in cuffia, gli occhi da dozzine di finestre su uno schermo; se un collegamento non “funziona” all’istante c’è qualcosa che non va, abbiamo bisogno di più campo, di più giga, di una banda più larga. Abbiamo fretta, non si sa bene di arrivare dove, e siamo costantemente circondati da un gran fracasso». Così scrive Ermanno Bencivenga nel suo ultimo libro, dal titolo La scomparsa del pensiero. La sua tesi è che la capacità di pensare si va riducendo, specie nei giovani, presi nel vortice del «tempo reale», incalzati dalla reazione immediata agli stimoli del mercato, del consumo, dei desideri.

La tesi non è affatto inverosimile. Ci sono studi, ad esempio, che provano che la pratica del multitasking – ossia, l’abitudine di saltare continuamente da un argomento all’altro o da un compito all’altro mentre si è al computer – non fa affatto guadagnare tempo, ma lo fa perdere: in più, interferisce con quella concentrazione che sarebbe necessaria per condurre a termine, e bene, una cosa per volta. Ma, indipendentemente dall’informatica d’oggi, il pensiero è comunque un processo lento che richiede passaggi logici graduali. E questo vale non solo per l’esecuzione di compiti e l’analisi e la valutazione di informazioni, ma anche per quelle meditazioni in solitudine dalle quali tanti filosofi del passato facevano dipendere la maturazione della consapevolezza di sé, la crescita interiore dell’io. Anche la lettura richiede un suo tempo, come la digestione; e anche la memoria si consolida e si dilata nel tempo, a condizione che ci siano spazi di silenzio e di solitudine per coltivare le rimembranze.

Questa nuova accelerazione del tempo ci rende simili a un insetto, l’effimera. Il nome assegnato alla specie degli efemerotteri viene dal greco: ephemeros significa «per un giorno», perché tale è la durata della vita di questo piccolo insetto, una volta uscito dallo stadio larvale. Noi, in realtà, viviamo enormemente più a lungo e la durata della nostra vita tende ad allungarsi sempre di più; ma la fretta con la quale consumiamo il tempo equivale a una contrazione della sua durata nella misura in cui ne diminuisce il significato. Non la quantità, ma la qualità fa contare la vita; ma la mentalità consumistica afferma proprio il contrario.

Scrivendo l’Émile nel 1762, Rousseau sosteneva che non bisogna togliere la libertà al bambino allo scopo di evitargli ogni rischio. «L’uomo che ha vissuto di più – scriveva – non è quello che può annoverare il maggior numero d’anni, ma colui che più intensamente ha sentito la vita. V’è chi s’è fatto sotterrare a cento anni, ed era morto fin dalla nascita». Ecco: un uomo simile – ammesso che sia esistito – è come l’effimera, anzi, peggio. Ma Rousseau non faceva che riprendere quanto, prima di lui, avevano insegnato tanti altri filosofi: come Seneca, per il quale la vita non è affatto breve, anzi, ne abbiamo in abbondanza, se ne facciamo buon uso: «Non è che abbiamo poco tempo: ne abbiamo perso molto. Non è breve, la vita che riceviamo, ma breve l’abbiamo resa, e di essa non siamo poveri, ma prodighi».