Sessantotto in famiglia

/ 14.05.2018
di Franco Zambelloni

Riprendo tra le mani un libro che ebbe molta risonanza negli anni Settanta del secolo scorso: La morte della famiglia, di David Cooper. Cooper era, a quel tempo, un paladino della cosiddetta «antipsichiatria»: dilagava, allora, l’onda lunga del ’68, e la moda d’essere «anti» – in opposizione a qualsiasi forma di tradizione – fomentava ribellioni, abbatteva le figure d’autorità e i modelli convenzionali, suggeriva utopie destinate a dileguare presto tra le nuvole dei sogni. Il Sessantotto e gli anni che ne seguirono furono uno scossone che, a mio avviso, non fu determinante per i cambiamenti storici successivi; piuttosto, costituì la presa di coscienza di grandi rivolgimenti in atto, dovuti all’evoluzione economica, sociale e culturale del secondo dopoguerra. Un mondo finiva, un altro ne nasceva. La contestazione sessantottina avvertì il cambiamento e contribuì a realizzarlo.

Tra le cose che tramontavano c’era anche la famiglia tradizionale: la «liberazione sessuale» sbandierata dai sessantottini ne sanciva in qualche modo la fine. Ma la tradizionale famiglia patriarcale in realtà era già in gran parte svanita: il marito e padre era ancora un po’ «padrone», ma certo non più come nell’antica Roma o nella Grecia di Omero: «ciascuno regna sui figli e sulle mogli», si legge nell’Odissea.

Ad evidenziare la crisi della famiglia tradizionale oggi si addita il dilagante numero di divorzi. Certo, è un cambiamento considerevole rispetto al tempo – non lontano – in cui vigeva quell’indissolubilità del legame coniugale che la Chiesa aveva sancito dodici secoli circa dopo Cristo; ma va detto che anche la pratica attuale del divorzio è comunque più complicata di quanto fosse a Roma, quando al marito bastava pronunciare la formula «uxor, vade foras» – moglie, vattene fuori – per legalizzare il ripudio. La moglie, allora, rientrava in possesso della sua dote; e se il ripudio veniva giudicato ingiusto dai giudici, alla donna spettava parte del patrimonio del marito. Ma oggi, per il marito, spesso le cose si mettono anche peggio: al momento della separazione deve provvedere comunque a moglie e figli e in più cercarsi un nuovo alloggio, finendo spesso sotto la soglia di povertà. Probabilmente, se non ci fossero queste complicazioni finanziarie, il numero dei divorzi sarebbe ancora maggiore.

Ci sono poi le unioni di coppie gay (fenomeno, anche questo, non nuovo; nuova è la liceità di queste unioni al giorno d’oggi); ma anche in questo settore le separazioni si moltiplicano. Cresce, invece, il numero delle famiglie monoparentali.

Poi ci sono i casi di violenza domestica, a quanto pare in aumento: mariti violenti contro la moglie (o anche viceversa), padri violenti contro i figli (o viceversa). Anche qui, non si può dire che il fenomeno sia nuovo – tutt’altro: un aspetto che rimane coerente con la tradizione è che la violenza fisica avviene soprattutto ad opera del marito sulla moglie; la violenza verbale, invece, sembra essere equamente distribuita.

Insomma, la convivenza matrimoniale si fa sempre più difficile. Viene da pensare che magari c’è del vero nel velenoso aforisma del comico britannico Rowan Atkinson: «La bigamia significa che c’è una donna di troppo. La monogamia anche». Però è strano: i matrimoni d’oggi non nascono più – come nei millenni passati – da contratti stipulati tra le famiglie, bensì dalla passione d’amore, e dunque dovrebbero avere una solidità ben maggiore che in passato; ma così non è.

Questo mi riporta ad un altro libro, uscito di recente: l’autore, Pascal Bruckner, sostiene che proprio il trionfo della libera scelta individuale e dell’amore, eletto a ideale assoluto, ha compromesso la stabilità della coppia. Fino alla prima metà del Novecento ciò che più contava erano gli interessi familiari e per salvaguardarli s’imponeva l’unità coniugale; poi gli affetti si sono emancipati e hanno preso il sopravvento su ogni altro fattore. La libertà conquistata non ha però aumentato l’armonia familiare, che era forse più facile (anche se non certo più giusta) quando la differenza dei ruoli sanciva rigide regole di comportamento; quando, per dirla con San Paolo, le mogli dovevano essere «sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa».

Le regole, così, erano chiare, anche se ingiuste; oggi sono giuste, ma confuse o evanescenti. Si può dire, pur sempre, che la libertà non ha prezzo; in realtà un prezzo ce l’ha, e a pagarlo di solito sono i figli.