Serendipity

/ 28.01.2019
di Cesare Poppi

Il 28 gennaio 1754, Sir Horace Walpole, Earl of Orford sulla costa del Norfolk, scriveva al suo amico Horace Mann della sua «scoperta» di un ritratto di Bianca Cappello dipinto da Giorgio Vasari probabilmente fra il 1563 e il 1565, mentre il fiorentino lavorava all’allestimento dello Studiolo in Palazzo Vecchio, a Firenze. Lo Studiolo, oggi riaperto al pubblico, sarebbe diventato il rifugio della nobildonna veneziana andata in sposa al Granduca Francesco I de’ Medici (quello per intenderci che fondò gli Uffizi) e morta lo stesso giorno del consorte – chi dice per veleno, chi per febbri malariche e chi a causa di entrambe – nell’ottobre del 1587. Horace Walpole figura nella storia del Regno Unito come uno dei tanti personaggi poliedrici al limite (anzi: probabilmente oltre) dell’eccentricità che hanno caratterizzato quei decenni della cultura inglese.

Erano i tempi del Grand Tour e della riscoperta delle culture classiche. Educato a Eton ed al King’s College, Cambridge, per lui ed i suoi sodali occuparsi allo stesso tempo di letteratura, storia dell’arte, archeologia e non da ultimo, e con un certo successo, degli affari di famiglia era una questione di fatto. Horace era figlio del Primo Ministro Robert Walpole e al pari del padre intraprese la carriera politica diventando deputato per il partito Whig, sostenitore della grande aristocrazia ma di tendenze liberali aperte alla tolleranza religiosa ed alle idee repubblicane – simpatie delle quali il Nostro non fece mai mistero. A completare il quadro di una personalità complessa non potevano mancare gossip e sospetti sulle sue preferenze sessuali ai tempi in cui nei salotti libertini francesi si discettava sul vice anglais e la cosa non era proprio ben accetta. Sia come sia: Walpole jr sarà ricordato specialmente per tre ragioni. La prima è che col suo romanzo Il Castello d’Otranto (1764) inaugurò la stagione di quello che è noto nella letteratura mondiale come «Romanzo Gotico».

La seconda ragione è la sua prolificità come scrittore di lettere. La sua corrispondenza è contenuta in 46 poderosi volumi pubblicati dalla Yale University Press. Come facesse a trovare il tempo quando ancora non poteva disporre del «copia e incolla» è materia di speculazione fra i critici. Ma il terzo, e forse più noto contributo alla civiltà globale è stata l’introduzione nella lingua inglese del termine serendipity. Nella prima comparsa all’interno della lettera sopra citata il termine stava per «colpo fortunato», «circostanza inaspettata», ma in senso estremo ed inusuale. Insomma, quella che in italiano forbito si definirebbe una «botta di fortuna» e in italiano meno forbito in un altro modo. O giù di lì, perché nel 2004 una nota compagnia inglese di traduzioni ha inserito serendipity fra le 10 parole inglesi più difficili da tradurre. Nel senso che nessuno sa di preciso cosa voglia dire – in sostanza. Come si sa, tradurre è tradire – e così per non correre rischi molti lessicografi hanno trasferito armi e bagagli il termine adattandone la grafia alla lingua nazionale e lasciando a ciascuno la libertà di spiegare cosa voglia dire. Così abbiamo serendipità in italiano, serendipiti in giapponese ed un bellissimo – a detta dell’Altropologo almeno – serendipiteetti in finlandese.

Dicevamo che nessuno sa di preciso cosa voglia dire, ma proprio per questo il termine viene usato con sempre maggiore liberalità nell’epoca della sovrana confusione – e fosse solo quella delle lingue. Andiamo allora a cercare di capirne l’origine. Walpole spiegava al suo Mann di aver coniato il termine mentre leggeva una fiaba novella persiana che lui stesso definisce «sciocca» dal titolo I Tre Principi di Serendip ove si narra di tre principi «che continuavano a fare scoperte vuoi per accidente, vuoi per sagacità, di cose che non stavano affatto cercando». Serendip essendo un nome arcaico per lo Sri Lanka mutuato a sua volta dal sanscrito Simhaladvipah – e vi risparmio accenti e diacritici. Meraviglia dell’inglese! Mentre il Mondo si impadronisce della lingua di Shakespeare e la avvilisce ad una questione di 4-500 vocaboli, l’autorevole Oxford Dictionary viaggia sui 615’000 vocaboli ai quali continuano serendipitosamente ad aggiungersene altri coniati per gli accidenti verbali più diversi, laddove l’Italiano si attesta fra i 215 e i 270’000 lemmi. E così il vostro Altropologo preferito, che non ha sciacquato come Manzoni i propri panni verbali in Arno bensì nel Cam(bridge), si trova a far lezione a classi di studenti internazionali che gli rimproverano di parlare un inglese che nessuno della generazione di wazzup e degli emoji ormai più capisce né oltremanica né altrove. Inutile argomentare che tanto forse non capirebbero comunque. A meno – naturalmente – di una botta di serendipità.