Senzatetto: per scelta o per forza?

/ 18.11.2019
di Luciana Caglio

Un mattino di fine ottobre, su un autobus londinese, un passeggero occupa lo spazio che, di regola, spetta alle carrozzine di bambini e invalidi. E ne fa la scena per un suo personalissimo spettacolo. Da una malandata sacca di tela, estrae un fascio di buste di plastica e cellophane spiegazzate, le spiana accuratamente, per poi rimetterle al posto di prima. Ma, intanto, è arrivato a destinazione: alla fermata, scende, abbandonando sul pavimento la sacca, da cui scivolano fuori le buste e un paio di mele verdi, insomma il suo intero bagaglio. Tutto ciò avviene, nel giro di neppure dieci minuti, su un trasporto pubblico ben frequentato, dove però l’episodio passa del tutto inosservato. A seguire le mosse di un personaggio che, visibilmente, apparteneva alla categoria dei senzatetto, ero stata la sola. Impegnata, a mia volta, a non dare nell’occhio, con una curiosità che, proprio a Londra, si scontra con la tradizione dell’indifferenza, considerata una forma di tolleranza e di accoglienza, cioè una virtù. Sottintende la capacità di accettare, per poi integrare, le diversità, e rappresenta una prerogativa delle metropoli.

E questa lo è a pieno titolo, anche per ragioni storiche, capitale di un impero che, sciogliendosi, ha riversato sulle rive del Tamigi un autentico melting pot. In questo crogiolo convivono gli autoctoni anglosassoni, e i cittadini dell’ex-impero, indiani, pakistani, afghani, giamaicani, siriani a cui, dopo la caduta del muro, si sono aggiunti gli emigrati dall’est europeo. E certo non basta un sindaco di origini pakistane e di fede islamica per attribuire a Londra un attestato di coabitazione riuscita. Ne è, tuttavia, un indizio non trascurabile. Sta di fatto che questa città non sembra un luogo da «prima i nostri». In proposito, capita d’imbattersi in situazioni persino grottesche. La signora, bionda, pelle chiara, che gestisce un delizioso Scottish Shop, nei pressi del British Museum, e giustamente decanta l’inimitabile stile scozzese di sciarpe e maglioni, ci confessa, senz’imbarazzo, di essere polacca e di non aver mai messo piede in Scozia. Ho dovuto, per associazione di idee, pensare ai nostri grotti, già simboli di genuina ticinesità, adesso gestiti da cittadini per lo più di origini balcaniche. 

La constatazione è scontata: si moltiplicano le analogie fra metropoli e città di provincia, proprio attraverso il loro paesaggio umano. Dove, a Londra come a Lugano, si ritrova, appunto, la figura dell’homeless: circondato da un alone, ancora da decifrare, al di là delle apparenze. A prima vista, come nel caso dell’uomo coi sacchetti di plastica, sembrava impersonare un classico del repertorio: il protagonista di una scelta di libertà, uno che ha il coraggio di rompere i legami con ogni forma d’obbligo. Coltivando, a volte, una vena creativa che, nelle metropoli, trova, ovviamente, il clima più favorevole. Ma anche le piazze, i portici, gli autosili luganesi, con il relativo consenso delle autorità, offrono ospitalità ai cosiddetti artisti di strada e ai senzatetto, categoria, quest’ultima, che in una città svizzera pare addirittura inverosimile. Invece, vivacchia e sopravvive persino a Zurigo, dove ha incuriosito Martin Suter, che, nel suo ultimo romanzo Creature luminose (Sellerio) li descrive con affettuosa ironia. In fin dei conti, nella nostra efficiente capitale finanziaria, aprono una parentesi di fantasioso disordine.

Ciò che, del resto, coincide con l’interpretazione corrente del fenomeno homeless: considerato una reazione, per così dire logica, alle regole di una società, accaparrata dall’obiettivo del successo economico e professionale. Si tratta, in definitiva, di una scelta a suo modo riabilitativa da parte di un individualista che va per la sua strada. Sempre che, e qui sta l’interrogativo di fondo, si tratti di una scelta libera e non subita. In altre parole, il senzatetto o barbone o clochard non è sempre uno che ha voluto esserlo, bensì la vittima di una situazione che l’ha travolto. In proposito si alzano voci d’allarme. Su «Repubblica», giorni fa Federico Rampini denunciava «l’emergenza homeless a Los Angeles: 60mila nella terra del sogno americano». Fatte le debite proporzioni, anche Fra Martino a Lugano vede aumentare il numero dei commensali alla sua mensa sociale.