Senza bar e senza casa

/ 20.04.2020
di Luciana Caglio

La legge, se già in tempi normali, stenta a essere uguale per tutti, figurarsi in un periodo d’emergenza. Ci si trova, adesso, alle prese con decreti che impongono divieti straordinari, ben diversi da quelli cui si era fatta l’abitudine. Non si tratta più di auto fuori posteggio, di eccessi di velocità, o di schiamazzi notturni, insomma di ricorrenti banalità. Il nostro Stato di diritto si è visto costretto a limitare libertà, ritenute sin qui intoccabili, con proibizioni dagli effetti inattesi. Stanno, infatti, creando nuove disparità. A cominciare da quella, determinata dall’età, ufficialmente a maggior rischio, riconoscibile a prima vista. Se sgarri, sei subito richiamato all’ordine perentorio dello «stai a casa!». Ma a fare i conti con questo divieto c’è un’altra categoria meno evidente, che sfugge a un’etichetta precisa, ed è quella sfaccettata dei marginali per così dire volontari.

Non si sta parlando di casi sociali estremi, tossici irrecuperabili, indigenti, senzatetto, violenti pericolosi. Sono, invece, nostri concittadini che, per scelta o per destino, tirano a campare a modo loro. Non di rado hanno alle spalle una delusione o una sconfitta, come mancati artisti, o un commercio fallito o il rifiuto vagamente anarchico dell’ordine costituito. Fatto sta che, per loro, la chiusura di bar e ristoranti significa la perdita di uno spazio vitale insostituibile. Mentre gli avventori comuni, in piedi al bancone per il caffè o l’aperitivo, o seduti, a un tavolo, per la lettura dei giornali, si godono una breve pausa strappata al lavoro o a occupazioni varie, i marginali vi trascorrono l’intera giornata. Sono, o meglio erano, di casa. E di casa si deve parlare, perché qui si sentivano a proprio agio, ritrovandosi fra consimili, persone sganciate da obblighi familiari e professionali, indifferenti ai richiami dell’orologio. Fra bicchieri di vino o birra e sigarette e sigari, chiacchiere e silenzi , avevano creato una sorta di associazione spontanea, un’appartenenza. Tutto ciò sotto lo sguardo neutrale di camerieri e proprietari del locale. In fondo, erano clienti che, di solito, non disturbavano. A parte qualche contestazione sul conto da pagare che, a fine giornata, poteva toccare cifre ragguardevoli. Tanto da costringerli a spostarsi, in cerca di un altro rifugio. Ma a Lugano, e alludo al quartiere, a me familiare, dietro il Palazzo di giustizia, tutto uffici e banche, bastano pochi passi per imbattersi in un ritrovo, pronto ad accoglierli.

Del resto, in zona, a quei personaggi si era fatta l’abitudine. Alcuni godevano persino della simpatia che spetta agli irregolari, presenza pittoresca in un società ordinata e un po’ grigia. Dove mai saranno finiti, nell’era dei bar chiusi e dei raggruppamenti vietati?Ma, sia pure in forma meno drastica, questo singolare spaesamento concerne anche altri nostri concittadini, per i quali il bar, se non sostituisce la casa, ne è comunque un prolungamento. Non si tratta di nullafacenti o di stravaganti, bensì di gente comune, operai, impiegati, casalinghe che abitano in periferia, dove si sono create comunità di immigrati, di vecchia e nuova data. Proprio qui i bar e le trattorie rappresentano luoghi d’incontro, una serie di piccole patrie, all’insegna di un comune denominatore: l’origine nazionale o il tifo per la squadra del cuore.

In questi ambienti spaziosi, suddivisi in sale e salette che accolgono tifosi davanti a video giganti, festeggiamenti familiari, tombole frequentatissime, gruppi corali. E via enumerando le manifestazioni di una socialità genuina e necessaria. Adesso privata del suo spazio esistenziale. Quest’interruzione di abitudini correnti sta lasciando segni tangibili anche nel paesaggio urbano. Sui marciapiedi, in parte adibiti a terrazze dei bar, oggi senza clienti, sono rimasti tavolini e sedie di ferro o plastica, accatastati in recinti, chiusi da catene e lucchetti, come oggetti inservibili, quasi rifiuti. È una visione simbolicamente spettrale e allusiva. Rievoca non soltanto i perduti piaceri individuali del passato ma, costringe a pensare, con angoscia, al nostro futuro collettivo. Su cui graveranno le conseguenze di un’inattività forzata e sine die. In proposito, è meglio astenersi da previsioni impossibili. C’è il rischio di passare per menagramo o per sconsiderati ottimisti.