Sofferenze che ci feriscono nel profondo, che violentano ogni espressione della dignità umana e trafiggono la coscienza della nostra comune appartenenza. Tutto questo dolore, nell’immane tragedia che si sta consumando in Ucraina, non pensavamo di doverlo ancora vivere e condividere. Siamo tristi, addolorati, a volte increduli. Invochiamo la fine della guerra. Parliamo di pace, anche se poi, a volte, ci rassegniamo pensando che la natura umana non è per la pace e che aveva ragione Hobbes quando parlava della guerra di tutti contro tutti.
Nel corso della storia, l’idea di natura umana è sempre stata pensata come un punto di riferimento necessario per comprendere, giustificare, e a volte anche legittimare i nostri comportamenti. Così, rovesciando la visione cruenta dell’homo homini lupus, Jean Jacques Rousseau aveva sostenuto che l’umanità è naturalmente buona: è la vita in società che la corrompe.
Sono solo due esempi di come, da sempre, abbiamo bisogno di rappresentare noi stessi. È il pegno storico del conosci te stesso. Questo bisogno di comprendere noi stessi indica l’unica cosa forse certa riguardo alla nostra natura, ovvero che noi non viviamo semplicemente tra i puri fatti realmente esistenti, ma piuttosto tra i significati che attribuiamo a questi fatti. Ci chiediamo «perché?». Riflettiamo sul senso del vivere e del convivere. Siamo animali culturali: la trasmissione genetica delle caratteristiche biologiche è nutrita dalla trasmissione di comportamenti, valori, idee. Contro ogni determinismo, che vorrebbe liquidare il discorso con un bel «siamo fatti così!», non solo fiducia nel valore della cultura: anche le neuroscienze sembrano suggerire che perfino il cervello è plastico, può modificarsi, anche in base alle nostre esperienze.
Un bell’incoraggiamento a percepire forme di libertà per il nostro agire, a sperimentare la vita come un progetto: a divenire ciò che siamo, insomma, a educarci.
Queste considerazioni sulla natura culturale e riflessiva dell’uomo mettono in luce l’importanza di quel sentimento di interiorità che abita in ciascuno di noi, quello stare in contatto con noi stessi, in quel luogo intimo in cui i fatti che accadono assumono per noi significato e valore. In questo luogo intimo possiamo sentire, e pensare, anche la pace, tanto invocata in questo periodo.
Perché pace non è parola che sappia raccontare solo ciò che accade nel mondo. Pace non è solo una parola oggi prigioniera di un immaginario collettivo che ci spinge a pensare dentro il linguaggio della guerra. E non è nemmeno solo una parola calpestata e offesa da un potere che mortifica e distrugge anche i sentimenti dei suoi cittadini. Pace è parola che ha a che fare anche con il nostro mondo interiore, con il nostro modo di sentire la vita. Cambiamo dunque orizzonte. In questo momento di grave disumanità, proviamo a scavalcare l’imponenza terrificante dei carri armati e a ritornare alle radici dell’umano da cui ci apriamo al mondo.
Torniamo a noi stessi per chiederci se, in questa immane tragedia, almeno dentro di noi, nello spazio dell’anima, questa pace tanto agognata riesce ancora a trovare un posto, un luogo di senso. Chiediamoci se, al di là delle vicende di guerra che ne urlano al mondo l’assenza, la pace sappia far sentire la sua voce in luoghi intimi, lontani sia dai cannoni sia dalle colombe. In verità la parola pace non ha voce, ma anche se non pronunciata può lasciarsi sorprendere e intercettare nei gesti, negli sguardi, nelle parole.
Allontanandoci per un momento dagli scenari cruenti, vorrei suggerire a ciascuno di noi di mettere il desiderio di pace allo specchio del nostro vivere. Di interrogarci sul nostro modo di stare al mondo. Riusciamo a vivere e a convivere dentro spazi e atmosfere che sappiano accogliere e lasciar fiorire le alterità e le differenze, senza annullarle? Riusciamo ad abitare il tempo dell’accoglienza che garantisce a ogni situazione conflittuale la sua umanità, nel reciproco rispetto? Siamo disposti ad accogliere il volto dell’altro che ci interpella e ci chiede di guardarlo con fiducia? Siamo capaci di ascoltare il silenzio che precede ogni gesto e ogni parola, quel silenzio creativo che rende parole e gesti più nostri, più veri, più vivibili? Infine, siamo pronti a immaginare, a desiderare e a pensare in prima persona un altrove possibile, in cui chiusure e incomprensioni potrebbero incontrare nuove aperture?
Prendersi cura del nostro modo di sentire la vita, prestarle attenzione, forse non basta a fermare le guerre ma di certo aiuta a sperare in un mondo migliore.