Ultimamente alcuni avvenimenti mi hanno richiamato alla memoria due episodi di un passato abbastanza recente, curiosamente simili e ugualmente inquietanti.
Ottobre 1962. È in atto la crisi missilistica di Cuba: USA e URSS si minacciano a vicenda. Il tentativo statunitense d’invasione della Baia dei Porci era fallito l’anno prima, e Cuba aveva chiesto alla Russia di piazzare sull’isola missili con testate nucleari per impedire altri tentativi d’attacco e per intimidire l’avversario. E così fu fatto. Ma nell’ottobre del ’62, due ufficiali di comando a bordo del sottomarino russo B-59, armato di missili con testata atomica, decidono di lanciare un missile contro la flottiglia americana che naviga in superficie. Per fortuna, il capitano Vasili Arkhipov si oppone, e la disastrosa operazione è abbandonata. Contemporaneamente, a Okinawa, in Giappone, il comandante statunitense William Bassett ricevette l’ordine di lanciare contro l’URSS quattro missili atomici, ma non volle dargli seguito, avvertendo che qualcosa non quadrava: in effetti, il maggiore che aveva dato arbitrariamente quest’ordine fu poi processato e condannato.
6 settembre 1983. Sui radar del sistema di preallarme sovietico appare improvvisamente il segnale di un missile intercontinentale americano lanciato contro l’URSS. Il protocollo di difesa antiatomica dell’Unione Sovietica prescriveva, in tal caso, un contrattacco immediato; ma il comandante russo Stanislav Petrov fu colto dal dubbio che si trattasse di un errore del sistema e rinviò la decisione, rischiando per questo la corte marziale. La sua prudenza salvò il mondo da un conflitto atomico.
Due episodi, dunque, in cui l’umanità fu sull’orlo della catastrofe; due situazioni in cui uomini di buon senso e di salda responsabilità morale impedirono la distruzione del mondo. I nomi di Arkhipov, Bassett e Petrov sono quasi dimenticati, mentre meriterebbero imperitura memoria, anche per rammentare a tutti che dalla ragionevolezza, dalla prudenza e dalla moralità di ciascuno dipende ogni speranza di futuro.
Pensavo a questi episodi passati leggendo gli scambi di insulti e di sfide che i capi di due nazioni – Trump e Kim Jong-un – si lanciano l’un l’altro ultimamente. Comincia la provocazione il coreano, lanciando missili con sconsiderata arroganza; Trump allora, all’Assemblea dell’ONU, lo definisce un Madman, un pazzo «che verrà messo alla prova come mai prima d’ora». Al che, Kim ribatte: «Trump è un folle rimbambito che pagherà cara la minaccia di totale distruzione del nostro paese». Trump reagisce deridendo il coreano e definendolo «un piccolo uomo-razzo» che gioca col fuoco. Insomma, oltre alle minacce reciproche, ciascuno dei due accusa l’altro di essere pazzo. Ed è questo che desta maggiore preoccupazione: se fosse vero? La ragionevolezza pone dei freni, ma la follia li scardina. Nessun uomo dotato di buon senso scatenerebbe oggi una guerra atomica, sapendo bene che non potrebbe uscirne vincitore, perché la distruzione sarebbe reciproca; ma la pazzia non si arresta di fronte a questa banale consapevolezza.
Nel 1300 Dino Compagni ricordava con rimpianto le guerre del passato, nelle quali si uccideva poco: in Europa la polvere da sparo non era ancora stata utilizzata. Ma poi, appunto nel XIV secolo, si costruirono i primi cannoni; poi vennero gli schioppi e da lì in avanti fu un progresso continuo – almeno nel numero dei morti ammazzati.
Günther Anders, che nel 1954 fu cofondatore del movimento antinucleare, ricordava il giorno in cui la bomba atomica fu sganciata sopra Hiroshima con queste parole: «Il 6 agosto rappresentava il giorno zero di un nuovo computo del tempo: il giorno a partire dal quale l’umanità era irreparabilmente in grado di autodistruggersi». Non credo si possa mettere in dubbio l’attendibilità di questa nuova cronologia; e direi che se dopo la seconda guerra mondiale è subentrato, almeno per l’Occidente, il più lungo periodo di pace di tutta la storia, questo non è ascrivibile ad un miglioramento della natura umana, ma al prevalere della paura. Quanto all’aggressività dell’uomo, per ora ha trovato il modo di manifestarsi in altre forme meno cruente: Friedrich Dürrenmatt, una trentina d’anni fa, giudicava che «quel che ci sta venendo incontro è una guerra economica, la guerra dello smercio ad ogni costo».
Insomma, è difficile non pensare a quanto scriveva Jules Michelet nel 1830, subito dopo la Rivoluzione di Luglio: «Con il mondo è iniziata una lotta che deve finire col mondo».