Sempre meno riluttanti

/ 20.06.2022
di Orazio Martinetti

Un tempo a Berna si diceva che la politica estera non stava in cima alle preoccupazioni del governo: un dipartimento di scarso prestigio, una Cenerentola da assegnare all’ultimo eletto, che giocoforza era il più inesperto. Che fosse proprio così non era del tutto vero, ma questa era l’opinione corrente, soprattutto al di fuori del Palazzo. D’altronde i cittadini votanti non avevano mai gradito questo genere di apertura: meglio rimanere in disparte («abseits stehen»), osservare e soppesare vantaggi e svantaggi di un’eventuale adesione ad un’organizzazione internazionale. Ecco come l’icastico Peter Bichsel coglieva quel clima alla fine degli anni Sessanta: «Per gli svizzeri esistono due mondi: il dentro, la patria, e il fuori, l’estero. Quando vado all’estero, mia madre mi dice: “Sta attento a non farti rubare niente, tienti sempre vicina la valigia”. Gli svizzeri all’estero mettono i soldi in un sacchetto che portano appeso al collo, sotto la camicia, oppure cucito sulla biancheria».

L’elenco degli appuntamenti declinati – innanzitutto il no alla Comunità economica europea – oppure onorati con notevole ritardo (Nazioni Unite, Consiglio d’Europa, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale) testimonia una ritrosia che ha caratterizzato il paese per decenni. Un’eccezione, un «Sonderfall» nel cuore del vecchio continente che solo negli ultimi anni si è incrinato sotto le spinte della globalizzazione e delle crescenti pressioni di paesi vicini e lontani (Stati Uniti).

La riluttanza ad impegnarsi in missioni implicanti scelte politiche, che andassero oltre la tradizionale vocazione umanitaria (Croce Rossa), era già emersa all’indomani della guerra del 14-18, allorché si dovette decidere se aderire o no alla Società delle Nazioni (SdN). La campagna che precedette la votazione popolare del 1920 fu particolarmente accesa, giacché intaccava uno dei princìpi-cardini del moderno Stato federale: il concetto di neutralità. Alla fine i sostenitori della partecipazione alla SdN la spuntarono (56,3% di consensi), ma soltanto di misura nel computo dei cantoni (11 e 1/2 contro 10 e 1/2). Certamente alla vittoria del sì contribuì l’attivismo del capo del Dipartimento politico, il cattolico-conservatore Giuseppe Motta, che seppe convincere molti dei suoi (non tutti). Ad ogni modo il cammino lungo l’infido percorso della «neutralità differenziata» fu tutt’altro che facile e mai del tutto persuasivo, soprattutto agli occhi dell’agguerrita opposizione interna, organizzata nella Lega popolare per l’indipendenza della Svizzera sorta nel 1921. Ancora nel 1986 – anno della fondazione della blocheriana Azione per una Svizzera neutrale e indipendente – ben il 75,7% dei votanti respinse il decreto federale per l’adesione della Svizzera all’ONU. Le parti si invertirono soltanto nel 2002, con i no che calarono al 45,4%: una percentuale che da un lato consegnava definitivamente al Novecento il riflesso pavloviano del rifiuto e della diffidenza e dall’altro vedeva affacciarsi all’orizzonte una nuova generazione, non più segnata come quelle precedenti dal ricordo dell’ascesa del nazifascismo e dal fallimento della SdN.

Nell’ultimo ventennio l’atmosfera è cambiata sia a Berna, sia nella sfera pubblica. La crescente interdipendenza economica, l’aumento degli scambi anche culturali, le oscillazioni finanziarie e le guerre commerciali hanno abbattuto frontiere e pregiudizi, evidenziando ritardi e talloni d’Achille a lungo ignorati. Segnali di una maggiore sensibilità per le problematiche sovranazionali, dai mutamenti climatici ai conflitti armati, sono visibili ovunque. Termini prima riservati ai club degli specialisti sono ormai patrimonio comune, per esempio la «geopolitica», una nozione che negli anni Trenta era servita soprattutto a giustificare le politiche espansionistiche dei regimi dittatoriali, alla ricerca dello «spazio vitale». Fino a qualche anno fa, chiedere di aderire al Consiglio di sicurezza dell’ONU sarebbe stato considerato un azzardo, un gesto dissennato. Ora invece il passo è stato compiuto, a comprova di un interesse per le relazioni internazionali sempre più diffuso, non solo nei consessi parlamentari, ma anche in larghe fasce dell’opinione pubblica. L’epoca dello «staremo a vedere» è finita.