A partire dagli incontri del 22 febbraio, validi per la Coppa del Brasile, ogni atto, parola, slogan o atteggiamento razzista verrà punito con una penalizzazione in classifica. Che i colpevoli siano i giocatori in campo, lo staff in panchina, o i tifosi sugli spalti e in tribuna poco importa. Sarà il club sportivo a pagare. Non più solo in denaro. Lo ha annunciato una dozzina di giorni fa il presidente della Federcalcio brasiliana, Ednaldo Rodrigues. Dal canto suo, l’omologo dirigente della Lega, che rappresenta i club coinvolti, ha rincarato la dose aggiungendo che ogni atteggiamento a sfondo razzista dovrà essere segnalato alla giustizia ordinaria, affinché possa procedere secondo le sue leggi.
Non voglio fare della dietrologia. Sono convinto che questo processo fosse in atto a prescindere dal passaggio della presidenza dal conservatore Jair Bolsonaro al progressista Ignacio Lula da Silva. Si tratta ad ogni modo di una svolta epocale nella lotta al razzismo nello sport. Un segnale chiaro che la sensibilità sta cambiando. Ne è testimone la società civile che viaggia verso una rovente bipolarizzazione etica. Da un lato abbiamo una moltitudine di persone sempre più coscienti del fatto che la discriminazione di una persona per la razza, l’etnia, la religione o l’orientamento sessuale, è quanto ci sia di più becero nell’animo umano. Dall’altro, una minoranza – almeno sarebbe auspicabile – di strenui difensori di una squallida libertà di pensiero che invade in modo ignobile quella di altri individui. Lo sport, unitamente alla caserma, è rimasto uno degli ultimi baluardi di quest’ultima categoria. Perché ci si può vilmente mimetizzare nella massa, o nascondere sotto un’uniforme che rende tutti più o meno uguali.
In Svizzera la legge parla chiaro. Ogni atto discriminatorio è passibile di sanzioni, più o meno severe, a dipendenza della gravità del fatto. Ma vai a individuare la voce della canaglia che impreca contro Mister X per il colore della sua pelle, o contro Mister Y poiché non fa mistero della sua omosessualità? Nonostante le videocamere di sorveglianza, gran parte degli atti di razzismo e omofobia a tutt’oggi restano impuniti. Il siluro lanciato sul pianeta-calcio dal Brasile potrebbe provocare una svolta.
Finora i club sportivi si limitano a far rimuovere dalle tribune gli striscioni ritenuti offensivi e discriminatori. Inoltre passano alla cassa in due modi: pagando multe più o meno salate, e rinunciando a una parte degli incassi nei casi in cui la giustizia sportiva imponga la chiusura di una curva o dell’intero stadio. La forza deterrente di queste misure non ha spostato di molto l’ago della bilancia. I grandi club sono confrontati con cifre da capogiro in altri ambiti, al punto che le ammende sopra menzionate equivalgono alla classicissima «quantité négligeable».
Se invece una società sportiva comincia a essere toccata nella classifica, la musica cambia. Avere qualche punto in meno può significare perdere il titolo nazionale, oppure, nel caso del calcio europeo, fallire l’accesso alla lucrativissima Champions League. Il rapporto tra punti persi e milioni persi comincerebbe a destare comprensibili preoccupazioni. Indurrebbe i club a modificare radicalmente la relazione con le frange più esagitate della tifoseria, troppo spesso trattate con i guanti, poiché si ritiene sia meglio averle amiche.
Per questa ragione è auspicabile che il gesto rivoluzionario della Federcalcio brasiliana possa essere preso in considerazione anche dalle altre federazioni, e non solo quelle calcistiche.
Il mondo del rugby, spesso considerato a ragione come un esempio di fair play, ci ha proposto pochi mesi fa la storia di Conakry Traoré, di origini angolane, naturalizzato italiano, pilone della Benetton Treviso e della Nazionale azzurra. Per Natale si è visto recapitare, quale regalo dai suoi compagni, un pacchetto contenente una banana marcia. La vicenda ci sbatte in faccia il confine tra razzismo e goliardia. I rugbisti del Treviso hanno riconosciuto l’errore e si sono scusati con Conakry. La tensione è stata quindi parzialmente assorbita.
Sono tuttavia convinto che in questa fase delicata di cambiamento della sensibilità, sia opportuno mantenere alto il livello di guardia. Il tempo, lo speriamo, ci consentirà di percepire con chiara consapevolezza la differenza tra la meschinità dell’atto discriminatorio e la battuta sdrammatizzante, affettuosa e, perché no, autoironica.