Il 6 febbraio scorso, sulla tratta Milano-Bologna, all’altezza di Lodi, un modernissimo treno ad alta velocità è deragliato, provocando la morte dei due macchinisti e una trentina di feriti. Un incidente che, per carità, può succedere e che, proprio in Italia, non sorprende più di tanto. Quel che, però, ha sorpreso è la parola eccellenza, applicata alle Ferrovie dello Stato, in una situazione, il men che si dica, inappropriata. Fra le specialità, vanto del «made in Italy», mondialmente apprezzate, sembra azzardato includere i trasporti pubblici. Sia chiaro, a scanso di equivoci, lo sfoggio delle proprie migliori prestazioni non è una prerogativa della Penisola. Anche, da noi, sempre in ambito ferroviario, l’invidiabile primato, in fatto di puntualità e confort, venne sbandierato per decenni, come simbolo del perfezionismo elvetico, nell’era del «viaggio in treno, viaggio sereno». Slogan, mi si conceda la deriva sentimentale, inventato da mio padre, e ormai improponibile. Con ciò la Svizzera doveva trovarsi altri settori e personalità, in grado di esprimere i vertici della genialità nazionale: università, centri di ricerca quali il CERN, alta tecnologia, e via enumerando prestazioni definite, appunto, eccellenze. A volte, lo sono effettivamente, si pensi ai numerosi Nobel per le scienze e la chimica, conferiti a nostri concittadini. A volte, invece, il termine è sprecato, imposto da una moda che ne ha alterato e appiattito sostanza e valore.
«L’eccellenza è mediocre»: s’intitolava, con un ossimoro già rivelatore, il commento, apparso sul «Foglio», nel giugno 2015, e dedicato a questo «ossessivo tic culturale». L’autore, Raffaele De Mucci, politologo, raccontava la storia dell’uso indiscriminato e fuorviante di «eccellenza», che, in Italia (in Ticino nell’ambito ecclesiastico), fino alla metà dello scorso secolo, era un titolo onorifico destinato a prelati, ambasciatori, alti funzionari. In auge durante il fascismo, con l’avvento della democrazia, la stagione delle «sue eccellenze» sembrava conclusa. Invece, complice un frainteso spirito democratico, si banalizzò diventando il contrassegno di una notorietà, comunque acquisita, al di là di qualsiasi merito: «Un modo d’apparire e non più di essere», per dirla con il linguista Sebastiano Vassalli.
In realtà, la democratizzazione dell’eccellenza, distribuita generosamente a scrittori, artisti, filosofi, compositori, scopritori, architetti, inventori, calciatori, arbitri e magari balordi pittoreschi, ecc. non coincide con una spontanea fioritura di talenti. Se le eccellenze sono tante è, piuttosto, perché di eccellenze si ha bisogno. Sono diventate l’emblema dei nuovi nazionalismi, fenomeno di dimensioni mondiali, che ci concerne tutti quanti, cittadini di democrazie, vecchie e nuove, oggi in fase di disincanto.
E qui una precisazione è d’obbligo. Un conto è il patriottismo, che esprime l’appartenenza a un luogo e a una collettività, dove si condividono tradizioni, abitudini, linguaggi: un legame amichevole, insomma positivo. Un conto, il nazionalismo, che accentua l’isolamento nel proprio guscio, per distanziarsi dagli estranei, instaurando un rapporto di superiorità a nostro favore. E, in proposito, l’eccellenza si sta rivelando un utile strumento, nell’attuale «società della prestazione» (Zygmunt Bauman dixit). Si assiste, così, a un’incessante corsa al primato, in ogni campo, dove ogni nazione si mette in gioco sfoggiando le più svariate eccellenze. Più che mai gettonato il settore gastronomico, dove l’attributo eccellente può aprire alla pizza la consacrazione a bene protetto dall’UNESCO. Un titolo a cui aspira, fra altri, anche la nostra «fondue», e, oltre confine, il parmigiano, o grana, che sfida la concorrenza dello «sbrinz».
Ma la competizione concerne sfere d’attività ben più commesse: esempio di acuta attualità, la sanità. Fiore all’occhiello, esibito appunto come eccellenza, per le progredite democrazie europee, che, dall’Italia alla Germania, ai Paesi Scandinavi, proclamano la propria eccellenza. Lo fa anche la Svizzera, un po’ in sordina, consapevole dei costi di una supremazia scientifica, ma non sociale.