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Se la maternità non corrisponde all’ideale

/ 03.05.2021
di Silvia Vegetti Finzi

Cara Silvia,
lei non ci crederà ma mi considero una donna fortunata anche se la mia nascita non è stata un «lieto evento». Sono stata cresciuta da una donna meravigliosa che ho sempre chiamato con orgoglio mamma, anche se non era la mia mamma biologica. Ora è morta ma vive nel mio cuore. Provo per lei una profonda gratitudine. Invece la mamma «vera», come si dice sbagliando, non l’ho mai conosciuta perché mi ha abbandonata alla nascita. So soltanto che era una contadina che viveva in un piccolo paese di montagna e sessant’anni fa era dura per tutti, figurarsi per una ragazza rimasta incinta senza essere sposata! Da bambina avrei voluto tanto conoscere la donna che mi aveva messa al mondo, sognavo che prima o poi l’avrei incontrata. Invece niente, in compenso la mamma adottiva – questa sì vera! – mi ha insegnato ad aver compassione dell’altra, a comprendere che se mi aveva data in adozione era perché voleva il mio bene, perché sperava che trovassi una famiglia in grado di crescermi, di amarmi, di rendermi felice.
Ora le confesso che pochi giorni fa sono rimasta sconvolta dalla notizia di una donna del comasco, madre segreta di una neonata lasciata in adozione, che si rifiuta di donare una goccia di sangue alla figlia naturale che potrebbe aver salva la vita se i medici riuscissero a ricostruire il codice genetico, partendo da quello materno. Da quando ho letto questa storia non posso togliermela dalla testa, mi chiedo: com’ è possibile? Che cosa vuol dire «essere mamma»?/
Claudia

Cara Claudia,
il suo interrogativo riecheggia nel cuore profondo dell’umanità perché la notizia è stata diffusa ovunque e perché tutti si nasce figli. La completo per chi non l’avesse ancora letta: una giovane donna, non riconosciuta dalla mamma naturale e adottata da una coppia di Milano, è affetta da una forma di tumore rara e aggressiva, la sua unica speranza di sopravvivenza risiede nella mappatura del Dna materno per la quale basta una goccia di sangue. Il Tribunale di Milano ha rintracciato la donna, cui ha garantito l’anonimato, ma questa, ormai settantenne e divenuta madre e nonna, ha risposto: no, assolutamente no. Una sentenza di morte per quella che, anche se non è stata legalmente riconosciuta, rimane comunque sua figlia. Ma forse non c’è bisogno di tanto, dovrebbe bastare la possibilità di aiutare un essere umano.

C’è dell’odio in questa settantenne, cui il destino ha concesso la possibilità di compiere un gesto generoso che potrebbe riscattare tanta sofferenza. Sì perché la figlia rifiutata è frutto di una violenza sessuale, di un trauma devastante che la vittima ha cercato di rimuovere coprendolo con la lastra di piombo dell’oblio ma là sotto i sentimenti negativi – la rabbia, il risentimento, il rancore – sono rimasti intatti, pronti a emergere, come infatti è accaduto, alla prima occasione. L’odio non elaborato, non compreso, non condiviso, genera odio in una catena infinita di violenza e di pena. Solo perdonando il suo violentatore la vittima avrebbe potuto ritrovare la capacità di amare. Ora è troppo tardi ma questo terribile episodio ci deve insegnare a stare accanto alle madri, a tutte le madri, perché detengono il bene più grande dell’umanità: la catena della generazione.

Purtroppo è venuta meno l’educazione alla maternità, come se mettere al mondo un bambino fosse esclusivamente un compito medico. È anche questo, ma non solo. Dare alla luce è nello stesso tempo un atto personale e relazionale, privato e collettivo, un compito che rivela forza e fragilità, autonomia e dipendenza. Il nuovo nato germina nel grembo di una donna ma la gestante per essere serena deve essere circondata dall’amore della propria madre, del partner, della famiglia e della comunità. Una cattiva maternità rivela che quell’abbraccio è mancato e dopo è inutile la caccia al colpevole. Credo che il rifiuto di quella «non madre» non sia disumano ma che riveli anzi la complessità delle nostre ragioni e la conflittualità delle nostre passioni. 

Bertolt Brecht conclude una cantata su una povera serva che ha soppresso il figlio appena nato, con queste parole: «O voi che partorite comode in un letto / e il vostro grembo gravido chiamate benedetto / non lanciate l’anatema / fu grande il suo peccato / ma pur grande è la sua pena». Una pena, un dolore, che non colpisce solo quella madre «snaturata» ma noi tutti, improvvisamente consapevoli che l’ideale della maternità non è sempre luminoso come crediamo; come tutti gli ideali può essere travolto dal male e dal dolore trasformandosi nel suo contrario. Eppure , cara Claudia, come dimostra la sua storia è possibile rimettere in moto la catena della vita sino a pronunciare la parole che inaugurano la sua lettera: fortuna meraviglia, orgoglio, vita… e la importante: gratitudine.