Se i grandi spiriti impazziscono

/ 18.11.2019
di Paolo Di Stefano

I premi letterari possono indubbiamente cambiare la vita di uno scrittore. Gli scrittori lo sanno e se qualcuno dovesse dire che non gli interessa partecipare e tanto meno vincere, il sospetto è che stia mentendo o che ci sia sotto qualcosa di strano. Sono considerazioni che nascono spontanee dopo la lettura di Visto si premi (Edizioni Santa Caterina, 5+), che racconta a più voci alcuni divertenti (e desolanti) retroscena dei concorsi letterari.

Divertenti e desolanti, perché spesso i premi fanno perdere la testa anche agli spiriti migliori, che in certe circostanze offrono il peggio di sé. Qualche esempio. Nel 1959 la Garzanti ha due candidati formidabili allo Strega: Beppe Fenoglio con Primavera di bellezza e Pier Paolo Pasolini con Una vita violenta. È stupefacente leggere i carteggi di quei due giganti. Il primo scrive a Pietro Citati: «i premi letterari non mi tolgono né il sonno né l’appetito. Io non scrivo per competizione (…), alla radice del mio scrivere c’è una primaria ragione che nessuno conosce all’infuori di me».

Bellissima dichiarazione di fede nella scrittura (6), ma il problema è che due cavalli della stessa scuderia editoriale non sono compatibili: uno dovrebbe ritirarsi, e questi, per ordine superiore, deve essere proprio Fenoglio in modo da lasciare spazio a Pasolini. Tuttavia, Fenoglio non ne vuol sapere, Pasolini si infuria (3–) e avvia una «campagna elettorale» promuovendo sé stesso presso i giurati, come in questa (squallidina) lettera del 12 giugno indirizzata al poeta Vittorio Sereni: «Caro Sereni, scusami questo atroce, laconico biglietto tutto bianco: ne sto scrivendo due dozzine… È per chiederti il voto allo Strega… Me lo darai?» (2). Tra i due litiganti, vincerà un defunto, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore de Il Gattopardo, romanzo uscito postumo l’anno prima.

Già nel 1952 alcune sceneggiate avevano allietato (si fa per dire) la società letteraria italiana. Quell’anno Bompiani propose per il Premio Strega I racconti di Alberto Moravia: ne nacque un pandemonio perché si trattava di una raccolta di racconti già usciti, anche se in realtà il regolamento non vietava la partecipazione di testi editi, purché contenuti in un libro nuovo. Per evitare il caos, Moravia decise nobilmente di ritirarsi lasciando campo libero al Visconte dimezzato di Calvino, il suo favorito: «Penso – scrisse in una lettera al comitato – che i premi andrebbero dati ad autori giovani o per lo meno sconosciuti». Furono gli strali della congregazione del Sant’Uffizio, scandalizzata per la blasfemia di certi racconti e pronta a mandarli all’Indice, a fargli cambiare idea: Moravia partecipò per ripicca e vinse scatenando le invettive di Carlo Emilio Gadda, che concorreva con Il primo libro delle favole. In una lettera all’amico Gianfranco Contini, Gadda urlò al complotto e non esitò a sparare a zero contro il «rumoroso codazzo degli strombazzatori di sinistra» che sostenevano Moravia, accusato di avere il «cervello… di un autentico deficiente» e silurato come «milionario sinistreggiante an-ario» (con un discutibile gioco verbale sulle sue origini ebraiche, 2).

Italo Calvino, nel 1968, scrisse un telegramma agli organizzatori del premio Viareggio, uno dei riconoscimenti più prestigiosi, che gli era stato assegnato per la raccolta di racconti intitolata Ti con zero: «Ritenendo definitivamente conclusa epoca premi letterari rinuncio al premio perché non mi sento di continuare ad avallare con il mio consenso istituzioni ormai svuotate di significato stop. Desiderando evitare ogni clamore giornalistico prego non annunciare mio nome fra vincitori stop. Credete mia amicizia». Erano anni di contestazione «obbligatoria» in cui era consigliabile tenersi alla larga dalle istituzioni (nel 1964 Sartre aveva detto no al Nobel).

Calvino stesso, che aveva già ricevuto il Viareggio una prima volta nel 1957, nella polemica che inevitabilmente seguì al rifiuto scrisse una lettera al direttore del «Tempo» in cui precisava: «Stare al gioco dei premi è un comportamento che i letterati onesti (e ve ne sono) seguono per abitudine, scoraggiamento, malintesa beneducazione, timore dello scandalo o della solitudine…». Più in là però lo stesso Calvino avrebbe accettato il Premio Asti (1970), il Premio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei (1972), poi quello della Città di Nizza, il Mondello e altri ancora (3+ alla coerenza). Chissà se vincendo il Nobel avrebbe seguito l’esempio di Sartre…

«Che debbo dire dei letterati in genere? – scrisse Moravia quando seppe delle reazioni isteriche di Gadda dopo la sconfitta – Meglio tacere» (6). In effetti, meglio tacere.