Se a volte il genio puzza

/ 11.02.2019
di Paolo Di Stefano

Un amico mi ha parlato di un Noto Scrittore Italiano descrivendolo come un tipo molto molto simpatico, ma davvero molto simpatico, brillante, sempre scoppiettante come lo spiedo di Carducci a San Martino con la nebbia agl’irti colli, un fuoco d’artificio di battute salaci, capace di far sorridere a ogni frase e a ogni sguardo: «Passare con lui una serata è divertimento assicurato».

Non stento a crederlo, mi è capitato di incrociare il Noto Scrittore Italiano in una delle sue frequenti apparizioni televisive (ogni volta che esce un suo romanzo la Rai si mobilita) e mi è sembrato una persona piacevole che fa venir voglia di andare in libreria a comperare un suo libro: e in effetti i suoi titoli troneggiano sempre nelle classifiche di vendita.

«Poi però – ha proseguito il mio amico – vai a prendere un suo libro e il risultato è deprimente». In seguito a questa suggestione critica, trovandomi in libreria, mi è bastato sfogliare l’ultimo romanzo del Noto Scrittore Italiano per condividere le ragioni del mio amico: l’ultimo romanzo di quell’autore scoppiettante, che vorrebbe rinnovare in letteratura la tradizione della commedia all’italiana, non fa ridere, è un tentativo comico fallito, malinconicamente furbo, nel solco del più classico «spirito di patata».Eppure ero ben disposto, avendo appena letto il nuovo romanzo di Giuliano Scabia, Il lato oscuro di Nane Oca (Einaudi, 5½), spesso e volentieri ridendo di fronte a quell’epica sgangherata e bizzarra (purtroppo mai apparsa in classifica): specie nelle pagine in cui i dinosauri si riuniscono in assemblea per discutere della fine del mondo finché «tutto viene spiaccicato» da un meteorite e i dinosauri si estinguono.

D’altra parte non c’è niente di più imbarazzante di un attore o di uno scrittore che vogliono far ridere a tutti i costi senza riuscirci. Non c’è niente di più deludente di uno scrittore che non mantiene le promesse che va sbandierando ai quattro venti (in televisione). Quante volte vi sarà capitato di assistere alla presentazione di un autore che non conoscevate e di essere interessati, persino rapiti dai suoi discorsi, rimanendo poi sconcertati nel momento della lettura. E per fortuna può capitare anche il contrario: rimanere delusi dall’incontro reale con l’autore di un’opera che invece vi ha entusiasmati: dico per fortuna, perché in definitiva quel che conta (e che resta in profondità) è il piacere del testo.

Pensavo a tutto ciò, sfogliando un libro (abbastanza divertente, 5-) sulle Vite segrete dei grandi scrittori italiani, pubblicato qualche anno fa da Electa (autori Lorenzo Di Giovanni e Tommaso Guaita, che ha anche illustrato il volume con disegni satirici e caricaturali). Mi è capitato tra le mani avendo a che fare con Leopardi nel duecentesimo compleanno de L’infinito. E proprio in chiave di rapporto tra l’autore e la sua opera, ho scoperto cose che non conoscevo. Alcune spassose: per esempio, che Giacomo andava matto per i gelati e per i taralli dolci della pasticceria napoletana di Vito Pinto, dove lasciò parecchie delle esili finanze di cui disponeva.

Alcune tristissime. Per esempio, questa: grazie ai resoconti lasciati dall’amico Antonio Ranieri, si viene a sapere che il poeta della luna, dell’infinito e del passero solitario era refrattario a lavarsi e a cambiarsi. Sicché quando la giovane giornalista-scrittrice Matilde Serao chiese alla nobildonna Fanny Targioni Tozzetti (vanamente amata e cantata da Leopardi con il nome di Aspasia) come avesse potuto resistere a un uomo tanto intelligente, si sentì rispondere: «Mia cara, puzzava». Siamo nell’aneddotica pettegola, è vero, sarebbe legittimo alzare le spalle e passare oltre, ma ciò non toglie che va compreso anche il naso della povera Aspasia. Basta aver scritto L’infinito per guadagnarsi l’attrazione sensuale di una donna? No, come non basta la simpatia irresistibile di un Noto Scrittore Italiano per apprezzarne i romanzi.

E visto che ci avviciniamo a San Valentino, va segnalato che più spesso, a quanto pare, sono i grandi poeti a mietere vittime d’amore in virtù del loro (presunto?) fascino letterario.Dicono che Giosue Carducci collezionò tante avventure erotiche ma ebbe un solo amore: non la moglie Elvira ma l’amante-pantera e musa ispiratrice Carolina Cristofori Piva. E fu un amore travolgente: «Io… io feci male a crearmi una famiglia, a legarmi alla vita di famiglia, che dà molti compensi, ma che a ogni modo inceppa gl’ingegni» arrivò a confessare il poeta in una lettera (pensierino banale da 3 in pagella). A proposito di lettere, il Carducci fu «sgamato» dalla povera Elvira perché aveva dimenticato sul tavolo la minuta di una epistola amorosa.

Uno legge: «T’amo pio bove» e si fa un’immagine del Vate («solenne come un monumento») che non coincide per nulla con certe sue miserie biografiche. Anche Giosue era un noto scrittore italiano: e probabilmente se ai suoi tempi ci fosse stata la televisione, sarebbe stato scoppiettante come il Noto Scrittore Italiano. Che, me l’ha assicurato il mio amico, ha anche la fortuna sfacciata di non puzzare.