Tutto è cominciato con un urgente bisogno di chiarezza. Si trattava di un’ulteriore esigenza democratica: abbreviare, nell’era delle comunicazioni di massa, le distanze fra testi cosiddetti alti, implicitamente riservati alle élites, e testi di tipo corrente, accessibili a tutti, insomma vicini all’oralità quotidiana. Serviva, quindi, un altro linguaggio, ancora da inventare, a disposizione di chi usa, professionalmente, la scrittura. A cominciare dal giornalismo dove, nella sfera linguistica italiana, precursore e poi maestro, fu Indro Montanelli, nella seconda metà del secolo scorso. Discusso sul piano ideologico dove si mosse a zig-zag, diventò invece, sul piano concreto, un modello stabile, da manuale. Dalla sua penna, dalla sua leggendaria Olivetti Lettera 22, sono usciti commenti, cronache, reportage, polemiche, titoli, aforismi che hanno fatto epoca: da «votare turandosi il naso» a «radical chic». Con ciò, Montanelli non ha ceduto alla tentazione della faciloneria, in cerca di popolarità a ogni costo. La sua invidiabile chiarezza non ha certo comportato il rifiuto delle regole fondamentali della grammatica e della sintassi: in nome di una sedicente libertà espressiva, ispirata al tutto è concesso, che andava di moda anche scrivendo. Con le conseguenze di un degrado e addirittura di una nuova forma di analfabetismo che giustificano l’allarme, e non soltanto degli addetti ai lavori, i puristi di vecchio stampo.
Certo, la denuncia parte dall’alto: secondo Francesco Sabatini, presidente onorario della Crusca, oggi si parla e si scrive «un italiano per principianti», povero, approssimativo, zeppo di errori che sembrano accettati, appunto in nome di una malintesa libertà. Questo severo giudizio è stato affidato alle pagine di «Repubblica», e quindi non è un discorso da specialisti, piuttosto la constatazione di un disagio, avvertito da un pubblico allargato. Si assiste, infatti, a un fenomeno diffuso, che presenta aspetti inattesi e persino contraddittori. Come osservava Sabatini, è una forma di regresso, rispetto a un passato recente. Negli anni 60, la lingua corretta, in bocca e in mano a tutti, sembrava un fatto acquisito, in un’Italia impegnata a debellare l’analfabetismo, anche grazie alla televisione nazionale, con la storica rubrica «Non è mai troppo tardi». Invece, rieccolo comparire, sotto mentite spoglie e sotto l’urto di imprevedibili situazioni politiche e umane: i flussi migratori stanno sconvolgendo il quadro linguistico nazionale. E non soltanto in Italia.
Cresce, anche in Svizzera, la collettività degli analfabeti di ritorno o funzionali: persone che, sia per questione di origine sia per trascuratezza o pigrizia, non hanno saputo mantenere vivo il bagaglio delle conoscenze scolastiche. In pratica, disarmati di fronte a un testo di media difficoltà e di uso comune come un comunicato ufficiale, una scheda di voto, il foglietto illustrativo di un medicinale. Mentre, e qui sta il paradosso, aumentano i canali proposti dalla tecnologia proprio per scrivere e comunicare. Ma come? Sviluppando modi espressivi particolari, semplificati nell’ortografia e nella grammatica. Ne sanno qualcosa i docenti, in particolare quelli delle Medie, dove arrivano ragazzini che ignorano un tormentone che afflisse le passate generazioni, in quarta e quinta elementare: l’analisi logica e il congiuntivo. Ma erano gradini da superare per ottenere un’effettiva licenza di scrivere e di esprimersi correttamente, la cosiddetta competenza linguistica. Ciò che avveniva lungo un percorso faticoso, che, oggi, si cerca di agevolare. Non da ultimo, scegliendo la scorciatoia della semplificazione e del semplicismo. In altre parole, non spingere verso l’alto ma tendere verso il basso.
In proposito, si registrano indizi discutibili. Ha fatto parlare, oltre Gottardo, l’iniziativa di un gruppo di curatori di musei, decisi a modificare le didascalie, che accompagnano le mostre, per renderle comprensibili a tutti i visitatori. Mentre, com’è stato obiettato, i visitatori dovrebbero affrontare un museo o una galleria con il dovuto impegno. Ma qui, un’osservazione è d’obbligo: per i critici d’arte, autori di certe presentazioni, la chiarezza è rimasta un tabù.