Scozia, il cuore batterà la ragione?

/ 17.05.2021
di Paola Peduzzi

Il popolo ha parlato e il popolo chiede di avere un nuovo referendum sull’indipendenza, ha detto Nicola Sturgeon, la premier scozzese, dopo che il suo partito ha vinto (di nuovo) le elezioni parlamentari del 6 maggio. Lo Scottish National Party ha sfiorato la maggioranza assoluta, che era il sogno più grande, ma per un seggio non l’ha ottenuta. Nulla di grave, perché i consensi di Sturgeon, che pure è al Governo dal 2014, sono cresciuti, e perché i Verdi scozzesi con i loro otto seggi garantiscono al Parlamento di Edimburgo la maggioranza pro indipendenza necessaria per chiedere – o sarebbe meglio dire, pretendere – un secondo referendum.

Come molti prevedevano, la Brexit rischia di prendere la forma più paurosa per il Governo di Londra, che è quella della «disunione», cioè il contagio delle -exit. La Scozia vuole uscire dal Regno Unito (la chiamano, con un termine bruttino, Scexit)e riaffermare la propria identità autonoma ed europeista, in contrasto con quello che ha negoziato e deciso il premier Boris Johnson. Il quale aveva anche detto, quando s’era fatto insistente la richiesta scozzese di restare dentro l’Unione europea, che per lui la questione indipendentista s’era chiusa con il referendum del 2014, in cui i secessionisti avevano perso: quante volte vorrete mai ripetere un referendum? Se ne riparla dopo il 2060, aveva detto Johnson, facendo infuriare nei modi e nel merito Sturgeon e anche tutti gli scozzesi, indipendentisti e no, perché se c’è una cosa che nella coscienza della Scozia non cambia mai è l’idea che l’unione con Londra sia stata, fin dal Seicento, un’imposizione truffaldina e malvagia.

Adrian Anthony Gill, meraviglioso scrittore e giornalista scomparso nel 2016, aveva scritto in occasione del referendum uno degli articoli più belli, sofferti e sorprendenti a favore dell’indipendenza. Affermava che gli inglesi dicono sempre agli scozzesi «fatevela passare», riferendosi alla rabbia rispetto al passato, «che è quello che i mariti che picchiano le mogli dicono alle loro vittime». Ecco, le parole di Johnson sul 2060 erano sembrate un pugno. Nicola Sturgeon si è ripresa tutto e subito, non appena è stato chiaro che la maggioranza c’è: non dobbiamo più discutere «se» si farà il secondo referendum, ha detto la premier, ma «quando». Lei spera che in due anni si possa arrivare a ricontarsi un’altra volta, convinta com’è che oggi tutto sia diverso rispetto al 2014 e che quel che aveva trattenuto allora gli scozzesi dal diventare indipendenti ora non ci sia più. Allora il pragmatismo aveva avuto il sopravvento: la ragione che batte il cuore, come si dice (non c’è cuore scozzese che non abbia sussulti indipendentisti, anche tra gli unionisti). La solitudine, per quanto sospirata, non conveniva. Le proiezioni economiche parlavano inequivocabilmente di impoverimento e i rapporti con il Continente diventavano paradossalmente più complicati che con l’intermediazione dell’allora riottosa Londra.

Ma poi tutto il Regno unito ha scelto d’impeto e senza troppi calcoli la solitudine, votando a favore della Brexit, e così tutte le dinamiche si sono ribaltate. Londra è diventata ancora più aliena e l’indipendenza un’occasione per ristabilire un ordine antico. Gli europei guardano con simpatia alla questione scozzese, non perché siano d’accordo (combatterono strenuamente contro il «sì» nel 2014) ma perché sanno che la secessione è un’altra voce nel «conto Brexit» che più è costoso per Londra più farà da deterrente per tutti quelli che ancora sognano di uscire dall’Unione europea. Il divorzio tra Regno unito e Unione europea ora si calcola così, in chi sta pagando e pagherà di più, in chi risulterà il lato debole dell’ex coppia.

Sturgeon non bada troppo alle sfumature, non ora almeno. Adesso l’obiettivo è consumare lo strappo con Londra e riuscire a indire il secondo referendum. Esercitando tutte le pressioni di cui è capace, che in questo momento sono tante, perché di fatto la Scozia si sta trasformando in una regione a partito unico. Le divisioni e il dissenso si perdono dietro a questa guida salda, determinata e che durante la pandemia ha saputo giocare molto bene la carta dell’efficienza e quella dell’autonomia. Se questo diventerà un successo indipendentista è presto per dirlo: la strada è ancora lunga. Più in generale se l’indipendenza scozzese diverrà un successo sarà tema di dibattito sia per quel che riguarda la capacità di questa regione di sopravvivere e prosperare in autonomia, (le dipendenze da Londra sono tante) sia per quel che riguarda l’eventuale gestione di un pareggio. La Brexit ha insegnato che le questioni esistenziali spaccano i Paesi a metà e poi riconciliarsi è nel migliore dei casi molto costoso, nel peggiore impraticabile.