Capita a volte di rimanere perplessi anche di fronte a un bel ragionamento. Ne riconosciamo la correttezza, la logica stringente, ma in qualche modo non riusciamo a capirlo, o meglio non lo sentiamo come nostro. Capisco, diciamo a noi stessi, ma non riesco a comprendere.
In questi momenti il nostro bisogno di comprensione, ovvero di riconoscere il senso, ci trasporta in un’esperienza diversa: è come se ci venisse incontro un altro vissuto della realtà. Sono potenti incursioni del sentire dentro un modo di ragionare che cerca invece di tenerlo sempre sotto controllo. Perché nessuna esperienza sensibile deve sporcare la purezza e l’ordine del pensiero, minacciarla con il disordine e il caos di sentimenti incontrollabili.
Questo bisogno di controllare i sentimenti è stato la forza ma anche la grande fragilità della razionalità occidentale che oggi mostra i suoi limiti nella comprensione della complessità. Eppure non sono pochi i filosofi che si sono accorti di questi limiti. Ad esempio, quel «cuore che ha le sue ragioni che la ragione non conosce», finito malauguratamente sulla carta di un rinomato cioccolatino, e diventato poi una frase fatta da sfoderare in momenti particolari, in realtà rimanda alle riflessioni contenute nei Pensieri del filosofo del Seicento Blaise Pascal. Il cuore di cui parla Pascal non evoca forme di sentimentalismo contrapposte al ragionamento; al contrario indica un’altra possibilità della conoscenza, una forma di conoscenza intuitiva in cui si esprime con forza la passione per la verità. Dunque ascoltare il cuore, suggerisce Pascal è una forma preziosa di conoscenza, e aggiungo più in generale: preziosa forma di conoscenza è anche ascoltare il corpo che siamo, ascoltare l’intrecciarsi delle emozioni, accogliendone il profondo valore cognitivo.
Le parole non sono mai neutre: che cosa ci dicono quando identificano il bisogno di sentire con il saper ascoltare? Che cosa mostrano le parole ascolto, ascoltare, nel dar voce all’esperienza sensibile della vita? Mostrano che il linguaggio, nel nostro entrare in contatto con il mondo, riconosce al senso dell’udito una chiara priorità rispetto agli altri sensi, come la vista o l’olfatto. Il linguaggio conserva e richiama alla memoria ragioni ataviche che abbiamo dimenticato. Oggi infatti, nonostante ciò che le parole continuano a suggerire, non dedichiamo abbastanza attenzione all’ascolto, forma inaugurale dell’esperienza: un’esperienza che comincia con la vita stessa e con i suoni percepiti nel ventre materno. L’esperienza acustica, l’ascolto, è forma originaria, primordiale, di conoscenza del mondo.
Ne Il mondo nell’orecchio, un bel saggio dedicato alla musica e alle sue origini, Ramon Andrés esplora l’incontro del nostro mondo interiore con i suoni, un incontro con sé stessi che esprime un profondo significato, ben prima che i suoni diventino musica. Il suono ci crea come individualità, sostiene il filosofo, la musica come parte della collettività. Il suono è elemento sensoriale determinante nella formazione della coscienza. Udire, ascoltare è percepire, e percepire porta a pensare: una lunga storia di culture orali ha attraversato la profondità del tempo
La nostra cultura, fin dalle sue origini greche, all’orecchio ha tuttavia preferito l’occhio: all’ascolto, la vista. In Platone la vista è potente metafora della conoscenza: nel mito della caverna, che racconta il viaggio dell’anima verso la conoscenza, gli occhi sono i protagonisti di una ascesa faticosa e dolorosa verso la verità. Fa male agli occhi la visione diretta del sole. Si tratta di un vedere metafisico, di una visione finale del bene da parte dell’anima, liberata dalle catene del corpo. In Aristotele invece la vista acquista tutta la fisicità di un’esperienza sensibile. L’uomo è per natura proteso alla conoscenza e lo dimostra il piacere dei sensi e innanzitutto il piacere provocato della vista. Il mondo negli occhi dunque? Forse sì, benché in realtà il richiamo all’orecchio persista: per dire che non abbiamo capito spesso diciamo che non abbiamo sentito bene.
Con un salto di duemila anni arriviamo alla nostra civiltà dell’immagine che esaspera ma insieme tradisce la potenza del vedere. Vedere, non va dimenticato, vuol dire avere un’idea. Molto spesso solo guardiamo aspettando di essere guardati. E dell’ascoltare come intima esperienza del mondo che cosa ne abbiamo fatto? L’abbiamo certamente coltivata attraverso il piacere che ci offre la musica. Ma il suono originario, quello dell’incontro con noi stessi, facciamo fatica a sentirlo e ad ascoltarlo. L’orecchio non sa ospitare il mondo, non il vento, non il corpo, non il suono della parola dell’altro, con la sua verità.