Da sessanta anni a questa parte i Papi viaggiano. Gennaio 1964. Il primo papa a viaggiare in aereo fuori dai confini dell’Italia è Paolo VI. Faccio parte della squadra Rai incaricata delle riprese. Il 26 dicembre 1963 sbarchiamo in Giordania. La città di Gerusalemme era ancora divisa e i luoghi santi erano in gran parte nel lato giordano. La nostra non sarebbe stata una diretta ma una «diretta differita»: non giravano ancora i satelliti. Un’auto della polizia portava di corsa le bobine di nastro magnetico con la registrazione delle riprese all’aeroporto di Amman. Imbarcate su un jet dell’aeronautica italiana andavano a Ciampino. Un’ultima tappa portava le bobine alla sede Rai di via Teulada. E da lì finalmente erano mandate in onda. Come ultimo arrivato ero assegnato ai compiti meno impegnativi. Stando in cima ad un’altissima torre di tubi Innocenti, dovevo riprendere dall’alto l’arrivo di Paolo VI alla porta di Damasco; sceso dall’auto il papa avrebbe dovuto iniziare a piedi il percorso della Via Crucis. Ai primi segnali dell’arrivo del papa, una gran massa di giovani si arrampicò sulla mia torre, grappoli umani sbilanciati in avanti. L’auto di Sua Santità all’ingresso della Porta era così pressata dalla folla che Paolo VI non riusciva a uscirne. C’era gente sdraiata sul cofano. Dopo molti sforzi gli addetti alla sicurezza riuscirono ad aprire lo sportello e a farne uscire il papa che si incamminò mentre dietro di lui il cardinale armeno Grigorij-Peter Aghajanyan, piccolo di statura, veniva gettato a terra. Rientrato a Torino ho letto i servizi su «Stampa» e «Corriere della Sera». Non raccontavano il caos, la confusione, gli ordini dati e subito revocati. I nostri grandi inviati erano partiti dall’Italia con i compiti fatti e trattandosi di un evento che non aveva precedenti, avevano impostato le loro sviolinate sui racconti dei Vangeli. Il primo servizio di Dino Buzzati è dedicato all’affannosa ricerca di una cabina telefonica dalla quale dettare l’articolo. Non c’erano né satelliti né cellulari: il primo impegno di un inviato consisteva nel trovare un telefono.
Il 5 gennaio era in programma l’incontro fra il papa e Atenagora I, patriarca di Costantinopoli, presso la Legazione apostolica situata accanto all’orto del Getsemani. L’accumulo dei ritardi nel corso della giornata fa slittare l’evento di tre ore, creando un grande nervosismo nei nostri capi. Terminate le riprese dobbiamo smontare l’impianto, spostarci di trenta chilometri per andarlo a montare a Betlemme dove, all’alba del 6 gennaio, il papa deve officiare la Santa Messa nel santuario della Natività prima di rientrare a Roma. Mi piazzano su un piccolo trabattello eretto sulla porta esterna della Legazione per riprendere l’arrivo dei due protagonisti. All’interno, in una sala affollata all’inverosimile di inviati e di fotografi, si svolge l’incontro pubblico. Poi fuori tutti: l’incontro deve proseguire senza testimoni.
Senonché, nella generale concitazione, il microfono servito a diffondere i reciproci saluti è rimasto aperto. Così io, l’ultimo in ordine gerarchico della squadra, avendo ancora le cuffie in testa, ho modo di sentire le frasi scambiate in un francese scolastico dai due santi uomini. È impensabile che qualcuno entri nella sala a spegnere il microfono. L’ingegnere a capo della nostra spedizione non solo mi ordina di togliermi le cuffie, mi fa giurare che non avrei mai rivelato cosa si erano detti i due. Ma il destino aveva in serbo per me ancora un incontro con il Santo Padre. Terminata la registrazione dell’evento abbiamo dimenticato nella sala dell’incontro un piccolo baule contenente l’obbiettivo zoom di una telecamera. Tocca a me recuperarlo. Entro e sto per scostare una tenda quando intravvedo che in quella stessa sala le suore hanno allestito un tavolo da pranzo e stanno servendo a Sua Santità un risotto alla milanese. Da fuori arriva concitata la voce del caposquadra: «Dove si è cacciato Gambarotta? Se fra dieci minuti non si fa vivo noi andiamo». Vogliamo scherzare? Mi faccio coraggio, scosto la tenda ed entro. Il papa è lì, a tre metri, alza il viso e smette di mangiare. Gli dico, indicando la scatola rettangolare posata sul pavimento: «Santità, lo zoom!». Lui non replica, in quella missione deve averne viste di tutti i colori, c’è mancato poco che la folla si spingesse fin dentro le acque del Giordano. Mi chino, afferro per il manico la cassetta, tento una sorta di genuflessione ed esco camminando all’indietro per non voltargli le spalle. Ancora adesso, dopo tanti anni, mi domando cosa avrei fatto se sua Santità mi avesse rivolto la domanda: «Vuol favorire?».